Oniria non cammina, ma fluttua e, dalla mia postazione sui tetti del sobborgo, la vedo quasi scivolare sull’asfalto come una foglia sospinta dal vento. Un pallido sole invernale, tramontando, lascia un alone grigiastro nell’atmosfera, e nei suoi umori. Ci sono sguardi che la seguono, la inquisiscono, le fanno domande tappandole la bocca con invisibili mani; sguardi che scuotono la testa perché non si dovrebbe essere così tristi non a 17 anni e senza un motivo che assalga gli occhi come luci abbaglianti, e le orecchie come strida acute.
Ma la tristezza di Oniria è un piccolo verme silenziono e, a piccoli morsi, ha mangiato il suo cuore come una mela dolce e matura.
A casa la aspettano urla laceranti e occhi che sono come bottiglie vuote. Le urla sono di un padre che crede di avere ali e incolpa una mamma bulimica di essere diventata pesante e di essere la zavorra che gli impedisce di volare. Una mamma bulimica piega il capo e accetta tutto. Con quieta disperazione. Con occhi che sono come bottiglie vuote. Mentre cenano, le solitudini di madre e figlia sono a distanza di abbraccio, ma si respingono come due calamite uguali e la notte, quando arriva, le spinge lontano. La madre in cucina a lavare i piatti, a pulire il pavimento, a preparare un sorriso perfetto per domani, a rattoppare l’amore per l’uomo che crede di avere ali e ad imbottirlo (in un modo o nell’altro) perché non faccia rumore quando cade; la figlia, invece, corre in camera sua.
Attraverso una scala attorcigliata come le spire di un serpente. Un serpente sibilante. Oniria si arrampica su per i gradini veloce, più veloce delle ombre che l’inseguono, che bisbigliano insistentemente qualcosa in una lingua incomprensibile, guardandosi le spalle, di tanto in tanto, per controllare il distacco ma - diamine! - le sono sempre alle calcagna! Quando finalmente chiude la porta della sua camera (del suo nido) dietro di sé, trae un profondo respiro. Le ombre restano chiuse fuori, ma lei sente ugualmente il loro fiato sul suo collo, e le loro voci, che ora parlano italiano: "Ti avremo! - dicono - Ti avremo!". E il terrore risale la schiena di Oniria come una fredda scarica elettrica e ne scuote lo spirito con la violenza di un terremoto. E la follia, non vista, le scompiglia i capelli.
Ora, però, il mondo è chiuso fuori, anzi non esiste più il mondo; non ci sono più, quindi, né sguardi inquisitori, né urla di padri, né pianti di madri.
Da ore se ne sta sdraiata inerme, sul letto sfatto. Lo sguardo fisso: contempla il vuoto chiuso fuori dalla sua porta e sta in ascolto, vigilando perché non entri. Ad un certo punto, però, scatta qualcosa. Un buco nero dentro lei si apre risucchiando illusioni alla deriva come asteroidi. Un buco nero nel suo torace dove prima stava il cuore, che la tristezza ha divorato. Forse le utopie che coltiviamo (o sarebbe meglio dire inventiamo) sono come radici d’albero piantate nel nostro essere e, una volta sradicate, consumate, ciò che siamo crolla, frana su se stesso. Le lacrime, con prepotenza, sfondano gli argini di un orgoglio cieco, che minaccia di fustigare una volontà indifesa. Oniria non ha mai accettato la sua fragilità di fronte al mondo; l’essere preda piuttosto che predatore. Il pianto la scuote.
L’orgoglio la percuote. Il buco nero risucchia i suoi respiri e tutte le sue forze. Solo la stanchezza, ad un certo punto, si appresta a cingerla divenendo ventre materno in cui lei può accoccolarsi. E dormire, senza sognare.
È notte fonda e Oniria è sveglia. Il cielo ha indossato un abito di seta nera spruzzato di stelle; è raro in questa stagione. Il gelo la punzecchia ma lei non se ne accorge perché, ora, il suo corpo è solo un vuoto involucro, privo di carne, privo di sistema nervoso e d’anima.
Una luna gialla e piena si alza, senza fretta, senza guardarsi alle spalle placida. E Oniria pianta i suoi occhi rossi e gonfi dritti nei suoi. Uno sguardo che è come una freccia che porta un messaggio; il messaggio dice: "Voglio morire" e la luna, triste, in un sospiro che pare una brezza risponde "Capisco".
All’alba ha preparato tutto ovvero, ha scritto il biglietto d’addio.
"Non è stato un incidente: mi sono buttata di mia volontà" -dice. Nessuna spiegazione, nessuna frase affettuosa. Mute parole per suscitare dubbi e rimorsi in tutti. Una crudele vendetta postuma, forse.
La luce è lieve ed è un bel momento per morire.
Salendo sul cornicione, le ginocchia tremano pur essendo rigide… strana sensazione. Guardando in basso la vertigine pervade Oniria, la ubriaca.
Io le volo vicino, urlando: "Non farlo, ti prego!"; ma lei sente solo uno sgraziato CRA-CRA.
Volge verso di me il suo ultimo sorriso; "Dove mi porterai - chiede - mio piccolo amico?"
Oh Dio crede che la condurrò io nell’aldilà! Ma la via avrebbe dovuto tracciarla lei vivendo.
Una piccola lacrima da corvo scende dal mio piccolo occhio di corvo.
Oniria a braccia aperte si butta. A braccia aperte, corre incontro alla morte. Mentre cade avverte che la terra l’attira nel suo abbraccio. E ciò la conforta, dissolve la paura che era decisa, comunque, ad ignorare.
La musica dei Cure accompagna il suo volo:
"The end is all that's ever true
There's nothing you can ever say
Nothing you can ever do... "
Colonna sonora assolutamente perfetta.
E poi CRACK! Il secco rumore del collo che si spezza. È stata fortunata, però: nessuna sofferenza, nessuna agonia. È morta sul colpo.
Ora un’Oniria spettrale può alzarsi, lasciando a terra un’Oniria corporale. Guarda il suo cadavere con curiosità, divertita: che strana posizione ha preso il suo corpo! Come un cartone animato con braccia e gambe attorcigliate. Mi avvicino:
"Hai ragione, -le dico- è una buffa posizione!".
Lei mi guarda e i suoi occhi sorridono.
"Dove andiamo?"-chiede;
"Da nessuna parte" -rispondo;
"Ma tu"
"Io non sono che un semplice corvo"
La scoperta la lascia senza parole: ciò che è, è ciò che sembra. Un corvo è solo un corvo e non una guida nell’Aldilà. E Oniria non conosce la strada per andarci da sola. La disperazione le ha già deformato il volto quando una folata di vento dissolve il suo spettro.
Come fumo.
Oniria ora non esiste più.

di Lairia