Era una giornata calda, afosa, sudata, in lontananza non si distinguevano più l’acqua e le strade.

Il sudore colava copioso dalla mia fronte e la mia maglietta degli Staind era umida, una grande macchia scura si estendeva dal collo fino all’incavo del seno. Camminavo per le strade del mio paese, sola.

Chiusi gli occhi, mi sentii comprimere la testa come in una morsa di quattro mani, calde, sudate, scivolose. I miei capelli erano pesanti, irruviditi, e gocciavano caldo sudore sui miei pantaloni bianchi e rossi dell’adidas.

Il sole ingrandiva lo smeraldo nei miei occhi e faceva luccicare come ambra i miei capelli. Mi sentivo bene.

Cancellai la patina bagnata dalla mia fronte col dorso dell’avambraccio e, immediatamente steso, una sensazione di frescura mi fece rabbrividire. Maledettamente fastidiosa mi percorse la schiena e colmò fino alle orecchie.

Sfiorai le mie mani irrigidite dai numerosi calli che ne ricoprivano le falangi. Come un atleta olimpionico che assapora quei momenti di fredda concentrazione cospargendosi le palme di gesso, scrutando, sfidando l’attrezzo di fronte a sé, io gustavo felice quel magnifico clima tropicale che sarebbe poi svanito.

Ondeggiai le dita come se dovessi aprire una cassaforte per mezzo di una manopola priva di materia, e le bacchette seguirono il mio movimento, scodinzolando.

Imitai John Otto per qualche secondo, poi il buon senso prevalse e riabbassai le braccia.

Un ragazzo camminava dall’altra parte della strada, lo guardai nei suoi caldi occhi che brillavano come diamanti a causa delle perle di sudore sulle sue palpebre, accennai un lievissimo sorriso. Mi rispose estraendo lievemente la sua lingua color fragola, strofinandosela sul labbro superiore… lo guardai ammaliata dal gesto, poiché tutto si era svolto con estrema lentezza. Portai una ciocca di capelli alle labbra e la succhiai, lussuriosa.

Ripresi la mia strada. Il mio corpo, come un’irrinunciabile abitudine, era attratto dolcemente verso la meta, i miei piedi proseguivano autonomi. Era così tanto che facevo quella strada. Ecco, tra poco avrei svoltato sulla destra. E infatti sentii il mio bacino rivolgersi verso quell’assolata via, chiazzata di fresche ombre di alberi, come uno splendido quadro di Monet, e io l’attraversavo, come se ne fossi parte. Ad ogni passo scricchiolava la ghiaia sotto le mie scarpe.

Mi fermai. Mi voltai con estrema lentezza. Non avevo avuto nessuna allucinazione uditiva: qualcuno mi stava seguendo ed il pietrame riecheggiava ancora nella via. Anche lo sconosciuto si era fermato. Credi di farmi fessa? Ti ho sentito, sai?! Allora rivolsi l’attenzione dietro di me. Ed ebbi un conato per la paura e la preoccupazione: era Suede.

Rimasi lì, e non capivo perché lo stessi aspettando. Muoviti cretina! Vattene di qui, che cazzo aspetti?! No, io non mi muovo di qui, sarà lui ad andarsene… sono proprio curiosa di conoscere la sua prima mossa. E che stia attento. Oggi sono solo in attesa di qualcosa che mi faccia scoppiare definitivamente. E una strana sensazione mi stava dicendo che forse l’avevo trovata.

Eppure preferì andarsene. Mi guardò negli occhi e schioccò la lingua, poi se ne andò.

"Mi fai schifo". Mi venne fuori, come per vomitare la tensione precedente.

"Sei un maledetto figlio di puttana! Ficcatelo su per il culo!" e gli mostrai il dito "Fottiti! E non provare più a sfiorarmi nemmeno con lo sguardo!!!" in quel momento fu come se le mie interiora avessero colmato il mio esofago, sfociando in un grido esasperato e soffocato. Poi, rimasi immobile in attesa dello scorrere degli eventi. Finalmente, respirai. Ed il mio respiro si era fatto spezzato, irregolare. Ma non avevo più alcuna paura. Se n’era andata col mio urlo.     [ avanti » ]

di udwr