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Era decollato sul suo biplano amaranto per effettuare
una perlustrazione delle linee nemiche e mitragliare le postazioni
delle truppe. L'aeroplano volava veloce ed il Barone Von Eichenkraft
guardava sotto le ali scorrere lentamente il panorama di quella
splendida terra. Il tempo era bello ed il motore girava alla perfezione:
quella mattina non avvertiva alcuna vibrazione irregolare. Il
Barone lo conosceva bene, il suo apparecchio, e ne capiva gli
stati d'animo, le difficoltà, gli umori. Ogni vibrazione sapeva
da quale parte del motore o della struttura portante provenisse.
Quell'aeroplano era il prolungamento delle sue membra. Pilotava
il suo biplano come se muovesse i propri arti e soffriva di ogni
suo guasto come fossero lacerazioni della propria carne. Erano
un meraviglioso centauro tecnologico. Lo aveva chiamato Tempesta
e come una tempesta quella formidabile macchina per volare turbinava
in cielo aspettando di dare libero sfogo al suo sputo di fuoco,
lanciandosi in duelli impossibili con macchine volanti nemiche,
combattendo contro una, contro due ed anche contro tre contemporaneamente.
Tempesta era risultato sempre vincitore. Qualche volta aveva preso
un proiettile di mitragliatrice sull'ala o qualche colpo di striscio
al motore, ma la vittoria lo aveva sempre arriso. Era un gioiello
di tecnologia.
Von Eichenkraft sapeva di avere delle doti particolari
per la guida degli aeroplani, ma era cosciente anche che senza
una macchina così affidabile e precisa, che egli paragonava ai
sofisticati meccanismi degli orologi svizzeri, non avrebbe mai
potuto abbattere tanti apparecchi nemici né compiere tutte quelle
missioni. Amava il suo biplano più di quanto un ufficiale di cavalleria
imperiale, un cosacco impellicciato o un guerriero berbero potessero
amare il proprio cavallo.
Quando il Barone ritornava da una missione, ispezionava
personalmente ogni parte del suo Tempesta: le ali, la carlinga,
il motore, l'elica. Se notava scalfitture o danni, predisponeva
gli interventi necessari, sovrintendeva alle riparazioni e, quando
erano terminate, si sincerava della qualità del lavoro effettuato
e dava disposizioni affinché la parte riparata fosse riverniciata
di amaranto. Poi lo faceva trasportare nel capannone in modo che
né la pioggia, né il sole cocente gli potessero arrecare il più
piccolo danno.
Il motore continuava a girare regolarmente ed il
vento gelido gli sferzava il viso sotto gli occhiali avvolgenti.
Lo strepitìo del motore riecheggiava tra le montagne sottostanti
e giungeva fino ai paesi lontani arroccati su minuti monticelli.
Le postazioni nemiche sembravano immutate.
Il Barone si allontanò dal fronte e poi si lanciò
in picchiata sulle trincee per osservare meglio le fortificazioni:
non ce n'erano di nuove. Le linee nemiche sembravano assopite
in attesa dell'assalto quotidiano. Sentì dei lontani colpi di
fucile e notò su una torretta di sacchetti di sabbia un soldato
che, imbracciando un moschetto, tentava di tirarlo giù. Alzò con
una mano il nastro della mitragliatrice per assicurarsi che potesse
scorrere liberamente e fece fuoco contro il fante. Si allontanò
ancora dalle trincee nemiche, virò e vi ripiombò più veloce di
prima sorvolandole longitudinalmente e tentando di centrare con
la mitraglia gli uomini che vi erano nascosti.
All'incursione il nemico reagiva come poteva: dei
soldati si buttavano fuori dai fossati per evitare la pioggia
di fuoco ma esponendosi ai mitragliamenti delle truppe di terra;
altri uomini imbracciavano il fucile e cercavano di reagire al
fuoco dal cielo sparando a propria volta.
Tempesta prese quota mentre il Barone osservava lo
scompiglio che si era portato dietro. Fece il giro della montagna
e vide da lontano un aeroplano nemico. Sentì nelle membra il brivido
del duello. Iniziò la manovra di avvicinamento all'apparecchio
nemico virando a destra ed a sinistra, cabrando e perdendo quota.
Il nemico aveva iniziato a mitragliare ma il Barone
sapeva bene che le virate del proprio apparecchio non potevano
essere controllate dall'aeroplano avversario in uno scontro frontale;
sarebbe stato impossibile, in quella posizione, riuscire a centrarlo.
Tempesta si impennò improvvisamente e virò leggermente
in direzione dell'altro aereo. Quando si trovò allineato ad esso,
Von Eichenkraft arrestò la virata e scese in picchiata mitragliando.
Una raffica forò in numerosi punti la carlinga del biplano, ma
il pilota non fu colpito. Tempesta seguì la virata del nemico
e ci si appiccicò dietro aspettando il momento buono per finirlo.
Il Barone osservava dalla tacca di mira della mitragliatrice l'apparecchio
danneggiato cercando di portare Tempesta ad allinearsi con la
direzione di tiro; lo seguì in un giro della morte e in tutte
le manovre diversive ma non riusciva ancora a puntarlo: il pilota
nemico non si dava per vinto; cercava in ogni modo di sfuggirgli,
di non farsi agganciare dalla mira dell'inseguitore.
L'attimo propizio venne ed il Barone non se lo lasciò
sfuggire; fece fuoco ininterrottamente riuscendo a tenere sotto
tiro l'avversario per un lungo periodo di tempo. Il fumo della
mitragliatrice gli sbatteva in faccia e respirava l'odore acre
della polvere pirica esplosa. Quando quel fumo si dissolse, vide
che il pilota nemico era chinato lateralmente sulla fusoliera
ed il suo aereo virava incontrollato perdendo paurosamente quota.
Da lì a poco si schiantò al suolo.
Su Tempesta Von Eichenkraft aveva assistito all'impatto
e tributò allo sconosciuto nemico gli onori militari: portò la
mano alla fronte e sussurrò tra i denti: «Adieu!». Pensò che avrebbe
potuto finirci lui, laggiù, e ringraziò il Cielo di non essere
stato scelto neppure quella volta.
Combatteva contro gli aviatori nemici ma provava
per loro rispetto e stima, forse perché sapeva che si trovavano
a condividere gli stessi pericoli e la stessa guerra. Ma c'era
qualcosa di più. Von Eichenkraft sentiva pietà e fascino per quelle
tempre straniere tanto simili alla sua che, sfidando il vento
ed il fuoco, coltivavano il suo stesso amore per quello stupendo
mezzo tecnologico che permetteva loro di cavalcare le nuvole,
di volare con gli uccelli, di vedere il mondo dall'alto, dalla
prospettiva nuova da cui mai nessun uomo, prima di loro, aveva
osservato e giudicato le miserie e le effimere gioie della vita
che si conduceva a terra. Essi erano votati ad un piacere superiore,
alla sublime gioia dell'elevazione spirituale attraverso l'ascensione
fisica. Tutti coloro che condividevano la passione per il volo,
erano immersi in uno stesso universo simbolico, rituale e filosofico
che li accomunava e faceva nascere in loro un ineguagliabile sentimento
di stima e rispetto reciproco. Vivevano nello stesso regno, quello
dell'aria, ed osservavano il mondo dalla stessa prospettiva. Per
essi i veri stranieri erano coloro che non solcavano i cieli,
che non passavano ore ed ore a sistemare il motore del proprio
veicolo, che non affrontavano gli stessi pericoli nelle tempeste
e che non respiravano in pista il puzzo del carburante combusto.
Se non fosse scoppiata la guerra probabilmente Von
Eichenkraft e l'aviatore che aveva abbattuto si sarebbero ritrovati
in uno dei tanti circoli del volo che erano sparsi in tutta Europa
o si sarebbero incrociati in aria, forse proprio dove si erano
affrontati, e si sarebbero salutati da lontano alzando il braccio
ed agitandolo in segno di amicizia. Invece non avevano potuto
sorridersi, non avevano potuto salutarsi, non avevano potuto mostrare
la propria reciproca stima. Solamente dopo che le canne avevano
smesso di sputare fuoco, solamente allora il vincitore aveva potuto
tributare allo sconfitto un sincero quanto tardivo segno di rispetto,
come atto finale di una tragedia in cui una incompresa ed incomprensibile
necessità porta i due amanti al funesto epilogo.
Il Barone sollevò il nastro della mitraglia ripiegato
nella scatola per vedere quanti proiettili restavano. Decise di
fare un'ultima incursione sugli sbarramenti nemici per poi ritornare
alla base. Scese in picchiata mitragliando e poi riprese quota.
Virò per ripiombare sulle trincee ma vide lontano un altro biplano
nemico avvicinarsi minacciosamente. Controllò nuovamente se i
colpi fossero bastati per un altro duello aereo e ripetette la
sua manovra di avvicinamento, variando sempre la propria direzione
e la propria quota. Era una strategia provata e riprovata decine
di volte che gli aveva valso sempre la vittoria. Era sicuro di
spuntarla anche quella volta.
Il motore scoppiettava regolare e la canna dell'arma
fremeva in attesa di gettare il proprio veleno mortale. Il nemico
mitragliava tentando di centrarlo ma il Barone continuava incessantemente
a sottrarsi alla mira. Inaspettatamente, però, sentì un rumore
sulla carlinga e subito dopo una serie di altri colpi sordi. Il
braccio gli sobbalzò come se fosse stato colpito da un sasso.
Vide il sangue che gli scorreva dalla mano imbrattando la verniciatura
amaranto di Tempesta. Si affacciò dall'abitacolo e notò dei fori
sotto la fusoliera da cui colava carburante ed olio. Il motore
cominciò a perdere colpi e Tempesta perse quota.
Von Eichenkraft capì che quella volta sarebbe toccato
a lui, andare a finire laggiù. La mitraglia nemica tacque, quasi
ad osservare un rispettoso silenzio di fronte alla Morte, ed egli
ebbe il tempo di provare paura. Il braccio era immobile, il motore
dell'aeroplano gemeva come un puledro ferito mortalmente ed ogni
scoppio dei cilindri sembrava il rantolo di un moribondo. Il Barone
pensò che era finita. Il suo Tempesta agonizzava e scendeva sempre
più veloce.
Gli ripassarono davanti agli occhi le immagini dei
duelli nei cieli, delle acrobazie del suo Tempesta, della sua
vernice fiammante sulla pista di decollo, della lucidezza del
suo motore. Come un baleno rivide davanti a sé il loro passato,
la gloria sua e del suo biplano. Quel mondo era finito. Non si
sarebbe salvato ma comunque non sarebbe potuto sopravvivere a
Tempesta e si disse che forse era meglio così, finire tutti e
due assieme, spegnere contemporaneamente i loro motori. Lo accarezzò
con la mano ancora illesa e lo salutò per l'ultima volta versando
le sue lacrime sul ferro vibrante della carlinga, poi guardò in
alto l'aereo avversario che seguiva da lontano quell'ultimo volo
e desiderò fare ciò che non aveva mai osato in precedenza: sollevò
il braccio al cielo e salutò il nemico, sorridendogli. Infine
si schiantò al suolo.
Il pilota nemico restò sorpreso da quel gesto tanto
inconsueto; portò la mano alla fronte e bisbigliò: «Farewell»;
poi sollevò il braccio e lo agitò nel cielo contaminato dal fumo
denso del rogo del Barone e Tempesta.
di Plaisir
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