[ « indietro ]     Sono fuggito dalla città che mi ospitava perché le sbarre non si addicono a caratteri come il mio. Il carcere è utile solo se volontario, ed io non lo desidero. Amo la libertà come un uccello l'aria, come il fuoco l'etere. Ho vagato per giorni e notti alla ricerca di una chiesa consona alle mie brame, ma come vedete sono ritornato, e presto, per rivedere il prevosto. Ho applicato nei suoi riguardi la stessa tattica che usai col gobbo suo sottoposto: ho finto (so fingere, eccome) un dolore indicibile, un pianto soffocato e perciò più verosimile, una resipiscenza senza condizioni. Lui mi guardava, mi ascoltava, improvvisava per me sermoni commoventi che mi impressionavano più per la loro illogicità che per l'intensità con la quale venivano pronunciati. Raccontai all'ecclesiastico che i miei giorni erano contati, che la mia ansia di ricevere, anche se tardi, i sacramenti di cui non avevo potuto godere per la sventura di essere nato in una famiglia di liberi pensatori stava ormai tramutandosi in angoscia, che la
vista della chiesa, con le scene terribili delle pene infernali e delle deità ctoniche che vi regnavano, mi aveva indotto a fare l'estremo passo; ma prima di uccidere me stesso, mi ero detto che una possibilità, anch'essa estrema, poteva, anzi doveva essere riservata a quel buon uomo che avevo intravisto nel suscettibile arco sotto cui ostentava la sua ombra: subito il prevosto si riconobbe e, invece di inferire dalla lusinga il sospetto, si insuperbì e parve accarezzarmi con lo sguardo.
Triste sorte lo attendeva. Era consuetudine, ormai da due secoli, che le benedizioni per i casi disperati o anche solo gravi si dessero entro la triplice cornice dell' "ottavo piano" del campanile, e quando così mi espressi a mo' di sfida, citando le virgolette usate dalla guida turistica da cui avevo ricevuto la bizzarra informazione, rise di gusto ma, continuando a precedermi per la tortuosa scala medioevale, altro non rispose. Eppure studiano tanto, questi preti.


* * * Gesù non era psicologo. Per fortuna.


* * *

Ho sognato mio fratello. Di nuovo. Mi sorrideva ambiguo dalla posterla della torre adiacente alla chiesa. Fu lui la causa di tutto. Un giorno, molto tempo fa, lo seguii (per noia? per curiosità? Perché qualsiasi cosa facesse, io lo imitavo?) in una delle solite scorribande tanto care ai bimbi - questa non è una parola composta (o sì?), ma è altrettanto odiosa - allorché mi accorsi, tenendomi un po' in retroguardia rispetto alla combriccola, che la devozione che avevo fino ad allora provato nei suoi confronti stava inesorabilmente cedendo il passo a una vaga trepidazione. Forse soggezione, forse paura e nient'altro. Aveva tutti i ragazzini del vicinato ai suoi comandi, e per questo lo invidiavo; ma c'era dell'altro, e non riuscivo, allora, vista la mia giovane età, a rendermene perfettamente conto.
Il contadino i cui campi confinavano con quello di nostro padre ci aveva giocato un brutto tiro: tanto aveva fatto e detto e tramato che l'annunciato santuario non si eresse sul nostro terreno ma sul suo. Papà prima maledì, poi perdonò il vicino. Mio fratello no, e tanto si accanì contro il maledetto, coinvolgendo nel suo rancore i figli dei vicini, che convinse anche me, di solito così timido e irresoluto, della giustezza delle nostre rivendicazioni. Bruciare il campo di granturco e il tempietto dedicato a Santa Barbara era un gioco da ragazzi - proclamava mio fratello; e ragazzi noi eravamo.
Detto, fatto: in men di due ore l'immensa distesa fu data alle fiamme, e il loro colore guizzante, un rosso irruente e maligno, mi colpì a tal punto che credetti di aver collaborato ad un'azione salvifica, unica, che nessuna attrizione futura avrebbe mai potuto cancellare. Ebbene, fu allora che mi votai anima e corpo al fuoco, all'ardore e all'entusiasmo di questo elemento divino, che il principe dei filosofi, Eraclito, indicò come l'unico degno di rappresentare il divenire.
Quel sorriso ambiguo mi fece ricordare, sempre in sogno, tutto ciò. Al risveglio ebbi la netta sensazione che dopo l'ammiccamento fraterno il sogno continuasse, e che io avessi alterato i ricordi per ingentilire la mia invidia. Come lo odiavo! E non cessa di seguirmi, la carogna! Lo ucciderò di nuovo, foss'anche in sogno.


* * *

Oggi l'organo singhiozzava, poiché il prevosto lo stava malamente accordando. Possibile che mi irriti fin nelle viscere?
- Le piace? - mi sentii interpellare.
- Non sopporto la musica sacra. Figuriamoci le accordature - gli risposi; ma poi, accortomi dell'impertinenza gratuita delle mie parole, ribadii un agrodolce "Mi dispiace. Non volevo offenderla."
- Oh, non fa nulla. Anche la vedova di Bach morì povera in canna.
- In canna d'organo? - mi lasciai sfuggire.
- No - riprese lui non sentendo o non capendo la battuta - in una fossa comune. Pochi apprezzarono il marito in vita. Come compositore. - Si girò, e mi guardò dritto negli occhi. Poi sorrise maligno: - La musica è la stessa in cielo come in terra. E sottoterra - aggiunse dopo una pausa.


* * *

Che il mio sogno derivi dal timore dell'inferno, è una ipotesi che lascio agli ingenui o agli asceti. Possibile che ogni cosa debba venir scrutata, sezionata, interpretata e, con ciò, rovinata? Mio fratello era capace di intrattenerti ore intere sul significato recondito, sotterraneo, di un simbolo, e se questo simbolo era il fuoco, o il demonio, o il drago ti faceva ammattire di felicità, il lestofante, avevi la bocca spalancata per lo stupore. Che ce ne viene ad almanaccare? Dubbio crea dubbio, senza nemmeno più l'illusione cartesiana di poter fondare una scienza. Figuriamoci: una scienza! E' forse possibile una scienza della musica d'organo? Dio ce ne scampi, ne abbiamo già tante! O una scienza del fuoco?!
- Perché no? - mi apostrofò, serio, il prevosto del capitolo.
- Perché cosa, scusi?
- Perché non può esistere, dicevo, una scienza del fuoco, se esiste quella dei sogni, della psiche, del mondo ... ?
Lo fermai. Gli risposi che un conto è la natura, un altro l'uomo. Ma lui riattaccò:
- Forse che l'uomo non fa parte della natura? Non avete voi un corpo?
- Sì, ma che c'entra, non è il corpo che governa i nostri atti.
- Questo è il punto: avete detto giusto. C'è qualcos'altro.
- Sì, ma non è quello che pensate voi.
- Cosa penso io, di grazia?
- Lo sapete.
Storse il naso, e così facendo sembrò sfuggirgli: l'anima?
- Per gli antichi essa era fatta di fuoco.
- Bene - mi rispose - ma secondo voi ciò che significa? Che è più soggetta ad infiammarsi?
- No, certo. Che tende al cielo, come l'elemento che la rappresenta. E che non sta mai ferma.
Rise di gusto, e mi lasciò come un padre il figlio che non si può aiutare. Non lo sopportai, e lo rincorsi col fiatone della collera per tutta la navata, tanto che quando si volse e si accorse di quello che gli volevo fare, era per lui troppo tardi. Così finiscono gli insipienti: gli legai mani e piedi, lo trascinai a fatica in sacrestia e, dopo aver chiuso a chiave le due porticine, lo finii come meritava. Altra chiazza di sangue, altra miseria. Miserere, miserere. Gli uomini non meritano certo una cremazione: essi non sono opere d'arte.


* * *

Occorre un buon sangue freddo per scrivere queste note nell'angolo più buio di codesta stanza. Il puzzo del cadavere, strano ma vero, è già in azione, e le ombre guizzanti nate dai residui della candela stanno per capitolare. Non riesco a descrivere se non ciò che mi passa per la testa, così, senza costrutto, ed anzi sono tentato di credere che ogni idea, anche la più imperiosa e sistematica, s'insuperbisca meno per la sua coerenza che per l'intensità con cui è apparsa per la prima volta alla mente. Ma questo, mi direte, non è pensare: è accogliere le impressioni e dar loro un abito più o meno vistoso.
Può darsi. Sarà il pensiero per la notte.


* * *

Dio, come sono infelice. Il mio progetto originale vacilla, la mia ostinazione si è tramutata in ossessione, ogni mio più piccolo respiro mi soffoca e mi fa dimenticare cosa sono venuto a fare in questa città. Già, che cosa? Dovevo bruciare la cattedrale, ho ucciso due persone. Ho dentro un'irrequietezza che mi lacera, che mi costringe a pensare come un vegliardo e a sentire come un adolescente. Volesse il cielo che diventassi immortale! Voi tutti pensate che il solo mezzo sia quello di costruire, creare complicate architetture in cui la logica si possa sbizzarrire come un cavallo inferocito e liberarsi dalle briglie di un auriga che, quantunque perfetto, non sa evitare la caduta. Diventassi almeno celebre! Dio sa quanto lo desidero. Lo desidero con tutte le mie forze, ed anche più. Riuscissi almeno a prender sonno. Questo forse lo so fare: dipende da me.


* * *

Se uno uccide l'oggetto del suo amore, non è colpevole, sia egli uno sfregiatore di Michelangelo o un ladro di affetti. Chi non capisce questo vivrà come quegli angeli che, pur sapendo che l'abisso esiste, non vogliono affacciarvisi: temono che volare sia sinonimo di cadere. Io non ho questa paura, e ve lo dimostro. Aver visto l'inferno vuol dire forse abitarvi? O venirne avvinto?


* * *

La stanza è d'argilla, il tetto d'ardesia, la luce di seta. I rumori esterni, se esistono, sono attutiti dal brusio che avverto dentro, che fonde ma non confonde i diversi peccati di cui mi sono macchiato negli ultimi giorni. A volte penso di essere l'unica persona sprovvista di Inconscio, o di Es, o di come volete chiamare quell'antipatico coacervo di minuscole atrocità che il Viennese tentò di domare definendolo. Ma dare un nome alle cose non significa renderle reali. Trovate reale la vita perché la nominate? O, al contrario, hanno i sentimenti meno valore per il fatto che non hanno nome? Io chiamo vita il fuoco, e Dio la morte.


di Paul