[ « indietro ]     Ah, viaggiare! L'ultimo viaggio lo feci tanto tempo fa, quando mamma mi portò al confine estremo della sfera per mostrarmi il colore dell'eternità. Non ricordo se usa anche da voi, so solo che al confine lo si può scorgere per un attimo, tanto che un battito di ciglia rischia di farvelo perdere. Non sarò mai abbastanza riconoscente a mia madre per quello spettacolo, nonostante negli anni a venire mi sia sempre un po' rammaricato del fatto che vi avessimo assistito una volta sola. Anche noi, come voi, abbiamo bisogno di spiare ogni tanto l'universo, pena l'oblio.



Dunque, sono disceso. Ho approfittato della conoscenza di un autorevole tibetano incontrato sulla via per rallegrarmi dell'ostinazione della sua gente (questa qualità divina non sarà mai abbastanza lodata, e anche voi dimenticate spesso che senza di essa non potrete ottenere mai niente) nello strapparsi i peli della barba ad ogni timido spuntare; e al suo racconto di come i Maya, loro discendenti, aborrissero una testa che non fosse ben rasata, beh, ho sospirato dicendo a lui e a me stesso che la vostra sfera, per amor di Dio, non è poi così diversa dalla nostra. Lui sorrise come può sorridere una madre e volle sincerarsi - come mi informò poi - della consistenza del mio corpo. Mentre passeggiavamo mi narrò antiche leggende, che io già conoscevo, e un suo viaggio fra i giganti di Brobdingnag, nei quali si era imbattuto dopo un naufragio dell'anima. Avevo già sentito quella storia, ma non ricordai dove e quando; dopo avermi assicurato della veridicità di quanto stava per dire, mi parlò di quel popolo, che si rade
solo due volte la settimana, e di come egli stesso non avesse potuto fare a meno di trasalire alla vista dell'enorme seno della balia che tanto aveva colpito Gulliver: ora, le parole del monaco e i miei pensieri combaciavano perfettamente. Riporto le une e gli altri: "Le fattezze troppo marcate, l'esser troppo uomo o troppo donna, più che impressionarmi mi disgustano." Al che cominciò a diventare noioso, e la mia mente ritornò al pensiero fisso che mi domina fin da bambino: non è passato giorno, dacché riposo nella sfera, che non mi sia compiaciuto del mio corpo, così indefinibile e libero da attributi che lo specchiarmi è per me l'unica causa di trepidazione.
Ora codesto corpo lo vedevo come un abito, senza il quale si può certo vivere ma unicamente in solitudine. Il lama sorrideva, sorrideva e non parlava. Era lui il mio maestro, colui che doveva essermi di viatico e agevolarmi il passaggio al vostro mondo? E che cos'è un maestro?

Mi accorgo che sono stato finora impreciso e mi avrete giudicato, non ne dubito, con una qualche aria di sufficienza. Ebbene, rimedierò, ma non prima di rendervi conto della mia assoluta mancanza di affettazione o, peggio, di lusinga nei vostri confronti.
Sono dunque un messaggero, un raqqas, una creatura più o meno delle vostre dimensioni, che molto ricorda una statua del Palacio de la Lonja di Mallorca. Ho ali grandi quanto il mio corpo ma nulla nelle mie fattezze fa trasparire quell'aria protettiva con cui il vostro stile gotico ha creduto di caratterizzarci. Un angelo, direte; un angelo, certo, sebbene mi sia sempre irritato ogniqualvolta un sedicente alchimista mi invocava come simbolo dell'elevazione dello spirito. Lo spirito precipita più spesso che non ascenda, ed io stesso ne dò prova. Sono un angelo, dicevo, e come tale ho vincoli di gratitudine e doveri talmente imprescindibili che l'elencarveli prolungherebbe il mio disagio e la vostra noia. Nella sfera in cui sono nato e cresciuto da una madre amorevole e prudente ho dedicato la maggior parte della mia vita allo studio e al pensiero, senza dubitare mai, almeno fino all'età di vent'anni, del fatto che la sfera, inclusi i suoi abitanti, potesse esser migliorata. Dai vent'anni in poi scoprii che i personaggi
dei romanzi, i protagonisti dei libri di storia, gli eroi delle leggende e gli stessi stati d'animo delle poesie non sono finzioni didattiche, ma vere e proprie entità che si divertono a recitare in eterno la medesima parte. Talvolta verità ormai perdute riemergono dal passato e suscitano, in alcuni di voi, reminiscenze di un gusto che vi pare stantio, ammuffito, o nel migliore dei casi malinconico. Oltre al colore dell'eternità, mia madre non volle o non poté imbeccarmi riguardo ai misteri infiniti, visto che anche per lei - così ammoniva - erano troppo grandi.
Crebbi nella convinzione, avvalorata dagli altri abitanti della sfera, che ogni cosa avesse la sua specifica funzione e che ogni pensiero risolvesse in sè tutta la realtà. Persino l'esistenza dei demoni era ammessa, ma come di esseri logicamente scaturiti da noi, e non come entità concrete contro cui combattere o con cui firmare un patto. Ora invece presento che il nostro ordine può essere uno dei tanti e, se non temessi di cadere nel ridicolo con ipotesi tanto azzardate, mi parrebbe d'esser quasi come Adrian Leverkuehn, un personaggio letterario che ha preso vita. Il lama potrebbe essere un demone mascherato, cui ho venduto l'anima per ritornare in terra. E' la terraferma che mi manca, ormai ne sono certo: tutta questa luce mi segue inesorabile come le vostre ombre, e fa di tutto (con quale risultato lascio a voi immaginare) per scacciare l'idea che ciò che sto vivendo può essere accaduto già infinite volte e infinite volte accadrà.




QUINTA GIORNATA

Ho dimenticato di dirvi (quante cose dimentico in questi giorni!) che non rientra nelle nostre facoltà la divinazione, a meno che non si intenda con questo termine l'insieme delle intenzioni altrui, le quali del resto non ci coinvolgono se non quando udiamo la musica delle sfere. Essa ci induce ad amarci l'un l'altro, e rimuove la crudeltà - astrazione che ci menzionano molto tardi e con imbarazzo - dai nostri pur deboli desideri. E' vero che talvolta ho sentito parlare dell'Angelo Sterminatore che avrebbe trucidato centoottantacinquemila assiri, o dei camuffamenti che alcuni di noi avrebbero escogitato per ordini superiori, ma tutto ciò a fin di bene e, visto il gran tempo intercorso, non è più il caso di far commenti. Anche voi dimenticate il passato col pretesto che è immutabile.
Divento sempre più malinconico, ma non per "camuffamento", come mi hanno consigliato i confratelli, bensì perché il mio unico contatto con la vostra sfera resta a tutt'oggi la passeggiata col monaco tibetano, le cui parole già svaniscono nella memoria per far posto a suoni freddi e remoti, quasi sospesi. Mi direte che ho sognato. Ma noi neppure dormiamo, poiché un pensiero continuamente all'opera non può permettersi il lusso dei sogni, che voi del resto non capite e lasciate a noi recitare. Eppure in qualcosa siamo simili, talmente simili che, allorquando uno di noi precipita e vi tributa un'involontaria visita, pochissimi tra di voi si accorgono della sua presenza. Non sorridete, vi prego, mi ricordate il monaco.


SESTA ED ULTIMA GIORNATA

Ho volato fino a Mallorca per conoscere l'artista che con tanto zelo mi aveva ritratto. Ma un suono celestiale mi ha indotto, non so come, a ficcarmi entro la statua che mi raffigura, e vi sono rimasto così a lungo che mi è impossibile, ora che ne sono uscito, avere un'idea di cosa abbia fatto durante la mia prigionia. Un io dentro un io. Codesto scultore (o musico, o asceta: noi non distinguiamo le tre cose) gridava più volte di conoscere il vero, e pareva impetrare il mio favore al fine di ottenere il dominio sui suoi simili. Come se io avessi deleghe! Non esistono vicari nella sfera nostra, tutto è tutti e nessuno può fare ciò che fa un altro, né avverte questo come uno smacco, poiché fare equivale a pensare. Da voi un individuo vale l'altro, da noi vi sono solo creature.
Ah, quanto mi dimenavo all'interno di quella esecrata statua! Ho grattato le sue pareti polite senza scalfirle, ho urlato a mia volta implorando la liberazione prima al teurgo e poi, visto che non mi ascoltava ma anzi strillava più forte di me, addirittura a mia madre. Era l'oscurità totale. Che io fossi ritornato nel suo grembo? Gli è che a forza di speculare confondo volentieri il logico e il concreto, errore che non ci avete mai invidiato, eccezion fatta per qualche scienziato inspiegabilmente assurto col tempo all'onore delle vostre cronache.
Quaggiù ho imparato in ogni modo due cose: grattare e urlare. Non che non potessi farle anche nella sfera; semplicemente non ne ho mai avuta l'occasione. Sfoghi simili non ci sono permessi. Sono salutari, dopotutto. Basta non far caso al lieve puzzo che emana sempre da una cosa concreta. Tornato a casa, mi turerò il naso e tenterò con le unghie il marmo celeste (si trova, si trova ... ) e griderò a chi incontrerò di svegliarsi. E' tempo.


di Paul