[ « indietro ]     Rientrò nel vagone ed arrancò su gambe mal ferme fino al suo scompartimento.
Era terrorizzato, ma doveva vedere chi stesse conducendo quella sorta di sogno viaggiante.
La cabina del conducente si trovava poco più avanti, una volta giuntovi, spalancò la porta di ferro con ferocia e si trovò dinnanzi esattamente lo spettacolo che si era prefigurato: il locale era vuoto, una luce rossa lampeggiava nei pressi di una sorta di cloche simile a quella di un aereo a reazione, i due bracci metallici si muovevano appena, animati da una forza invisibile, seguendo le rotaie immaginarie che sostenevano il treno fantasma.
Fece retromarcia e si sedette nuovamente nel suo scompartimento.
Che diavolo stava succedendo?
Non aveva assunto psicofarmaci, non prendeva neppure più il sonnifero che gli era stato indispensabile per addormentarsi nell’immediato periodo succedente al suo divorzio; era astemio, non aveva mangiato funghi negli ultimi sei mesi…quindi non poteva essere in balia di alcuna singolare alchimia chimica.
Allucinazioni?
Chiuse gli occhi.
Inspirò profondamente.
Quando li riaprì si trovò a fissare il sedile vuoto di fronte a lui.
Abbassò il finestrino: la monotonia del rincorrersi degli alberi e la forte eccitazione a cui era stato sottoposto, ebbero lo strano effetto di indurlo in un sonno profondo.
Dopo un lasso di tempo indefinibile, una mano lo scosse con delicatezza.
“S-sì?”.
“Siamo arrivati, Sir”.
Lo stesso giovane che gli aveva fornito le indicazioni, il medesimo che aveva visto vestito da controllore, lo stava fissando con occhi benevoli, solo che ora indossava un compunto completo grigio, con panciotto e foulard del medesimo colore stretto attorno al collo.
“Dove?” chiese titubante.
“A Lostown; mi vuole seguire, Sir?”.
Si alzò a fatica e si tenne a poca distanza dall’uomo che lo precedeva con fare spedito.
Scesi dal treno si ritrovarono in una piazza solitaria, sperduta e spoglia; non riusciva a scorgere la sagoma di nessun edificio, l’aria era pesante e statica, la visuale offuscata da una coltre di nebbia quasi solida, che pareva ghermirlo con dita gelide.
“Non è la mia città” sussurrò atterrito.
“Sì che lo è, Sir. E’ la sua città, così come Lei la vede, Sir”.
L’uomo si allontanò senza voltarsi e senza fornirgli spiegazioni ulteriori.
“Un attimo” gridò alla figura che si allontanava “torni qui! Hey, mi sente?” non ottenne risposta.
L’uomo scomparve all’orizzonte lasciandolo solo in mezzo alla foschia.
Si guardò attorno nella disperata ricerca di qualcosa di familiare, se quella macabra visione era veramente lo spettro della sua città natale, era certo che se avesse proseguito per almeno mezzo miglio nella direzione nord, sarebbe giunto in prossimità di quella che sarebbe dovuta essere la sua casa.
Camminò.
Il nulla lo avvolgeva come un sudario umido.
(Dio mio) pensava (ma dove sono? Ma cosa mi sta succedendo? Signore, aiutami) lacrime salate gli solcarono le guance fresche di rasatura.
Un muro di mattoni grigi apparve improvvisamente dinnanzi ai suoi occhi, alto e impervio.
Ne seguì a tentoni la facciata ruvida e fredda, finché le sue dita incontrarono una superficie liscia e levigata; ne tastò il perimetro fino a che riuscì ad afferrare un qualcosa di metallico, lo girò in senso orario e la porta si aprì.
La luce abbagliante che invadeva la stanza lo accecò, si parò gli occhi con un gesto istintivo della mano, poi le sue pupille si abituarono al bagliore permettendogli di mettere ben a fuoco ciò che lo circondava: era una sorta di salone, riccamente arredato,con broccati dorati che ornavano le due grandi finestre, una libreria in legno saliva spavalda fino al soffitto, ingombra di centinaia di volumi finemente rilegati, un divano tappezzato di velluto blu era posto fra le due finestre frontalmente all’entrata, una poltrona era rivolta verso un camino acceso e sfavillante, non vide lampadari né candelabri, non riusciva quindi a spiegarsi da dove provenisse quella luce accecante che sembrava trapelare dai muri stessi.
“Chiuda la porta,Sir, e si accomodi, la prego”.
Accostò meccanicamente l’uscio, avanzò verso il centro della grande sala e vide ancora una volta quell’uomo seduto sulla poltrona, vestiva una raffinata giacca da camera rossa, nella mano sinistra teneva stretto un piccolo volume e nella destra una lunga pipa nera, dalla quale si sollevavano pigre delle lunge volute di fumo.
“Chi è lei?”.
L’uomo sorrise.
“E scommetto che la prossima domanda sarà: dove mi trovo?”.
“Esattamente, forse non le parrà originale, ma è ciò che avevo intenzione di chiederle”.
“Mi perdoni, Sir, non volevo alludere alla banalità delle sue domande, è solo che sono secoli che ascolto sempre le stesse cose”.
“Secoli?”.
“Forse qualcosa di più, ma che importa”.
Si alzò, si diresse verso un mobile bar, prese due bicchieri, vi versò del liquore e tornò indietro porgendogliene uno.
“Dunque, chi sono io. E’ difficile definirmi, qualcuno mi ha dato un appellativo curioso diversi anni or sono, un appellativo al quale mi sono molto affezionato: il signore del tempo perduto”.
“Prego?”.
L’uomo rise di gusto. Una risata sana e squillante, una risata che sapeva di eterno.
“Questo è il mio regno, no, no, non intendo la dimora dove ci troviamo, mi riferisco a tutto il resto; l’immobilità della nebbia che pervade la mia terra, l’odore del passato, il frastuono del presente che si ode appena dietro la collina, la luce del futuro che filtra fra le montagne, questo è il mio regno”.
“Non credo di capire, ma rimane un enigma ancor più ostico per me: cosa ci faccio io qui?”. “Semplice, Sir, il mio compito è custodire la memoria di ciò che è stato, è e sarà. Sono molti anni che colgo le sue lamentele Sir, ed ho alfine deciso di darle la possibilità di cambiare”.
“Cosa? Cosa posso cambiare?”.
“Tutta la sua esistenza Sir, tutta la sua esistenza”.
“Non capisco”.
“La sua monotona, insoddisfacente vita, le sto offrendo la possibilità di azzerare tutto il suo tempo perduto, di ricominciare da dove vuole”.
“Sta scherzando”.
“Mai”.
“Posso riavere il mio tempo perduto? E perché, di grazia, mi farebbe un tal favore”.
“Acuta osservazione, non molti ai quali ho fatto in passato questa proposta hanno avuto l’ardire di chiederne il perché, ma le risponderò, Sir: per divertimento. La mia esistenza, perché di certo non si può chiamare vita, non mi offre molte opportunità di incontrare gente, di sperimentare sentimenti che non siano i miei, certo, sia chiaro, ascolto gli stati d’animo degli esseri umani da tempo immemore, ma non è la stessa cosa che gestire le proprie emozioni, e poi l’uomo mi incuriosisce e mi incuriosiscono le sue scelte. Soddisfatto della risposta, Sir?”.
“No, ma temo che non ne riceverò delle altre, giusto?”.
L’uomo annuì soddisfatto.
“E come funziona, si…insomma, cosa debbo fare”.
“Scegliere”.
Silenzio.
“Scegliere fra tre diverse opportunità che le prospetterò, Sir”.
L’uomo lo prese sotto braccio e lo indirizzò verso il caminetto.
“Può decidere di tornare alla sua infanzia, Sir, e ripercorrere la sua vita da capo, evitando, ovviamente le scelte che l’hanno fatta soffrire, ed intraprendendone delle nuove, che però non è detto la rendano felice”.
Fra lo sfavillio delle fiamme apparve l’immagine di un timido ed occhialuto bimbetto di quattro anni, con un pallone stretto fra le mani ed un’aria mesta dipinta sul volto coperto di efelidi; il professore fissava l’apparizione onirica con sguardo distaccato, quasi infastidito.
“Oppure può decidere di rinascere, anima vecchia in un corpo nuovo”.
Il miraggio infuocato mutò di colpo assumendo le sembianze di una giovane donna in stato interessante, il volto pallido, gli abiti troppo stretti, un cappotto striminzito su un pancione enorme, occhi sgranati ed impauriti.
“No, non mi interessa” sentenziò.
“Allora resta l’ultima ipotesi, Sir, ma non credo che le aggraderà: può decidere di prendere il posto di qualcuno che odia”.
Fra le fiamme del camino apparve il volto abbronzato di Edward, il broker che gli aveva rubato la moglie qualche anno prima.
“Vada avanti”.     [ avanti » ]

di Vampire