Quando gli angeli vedono il baratro

Serena lasciò cadere le mani sui bordi del lavandino. Alzò gli occhi allo specchio punteggiato di sporcizia. Sotto la violenta luce al neon, che la sovrastava, il suo viso appariva privo di vita, pallido, e dai suoi occhi azzurri, incavati nelle orbite, traspariva la triste solitudine di uno spettro.
Cos’era lei?
Lo sapeva?
O non voleva ammetterlo a se stessa?
Una volta aveva rischiato di perdere la sua anima, aveva lasciato che Lui ne abusasse e l’avrebbe semplicemente guardata sfiorire, sparire.
Perché far rischiare gli uomini quando lei non lo era più?


Il sole di quel mese di giugno scaldava violentemente la terra. Ogni anno era peggio, il caldo era sempre più afoso e insopportabile, come se stesse facendo a gara col tremendo freddo dei mesi invernali. Un flebile vento faceva danzare le splendenti chiome dei pioppi cipressini e i prati, a tratti interrotti da “ponti” di campi coltivati, erano oceani verdi macchiati dalle scure ombre di giganti centenari. I paesini sembravano mucchi di pietre morte che si diradavano man mano che ci si allontanava dal centro. Un paesaggio immobile avvolto solo dai gioiosi rumori della campagna. Un quadro statico, monotono, rinchiuso nella sua cupola di superficialità, che presto sarebbe rimasto disarmato di fronte alla realtà. Come la pioggia si fa annunciare dalle prime gocce così apparve Lei serpeggiando tra le vie campagnole a bordo di un autobus. I suoi occhi azzurro cielo bucavano il vetro e s’inoltravano tra i numerosi terreni; le braccia erano lasciate pesantemente tra le gambe; la bocca appena socchiusa soffocava un grido
al suo interno: così si presentava Serena.
Lentamente si liberò dalla trance in cui era caduta, alzò un braccio per spostare un ricciolo biondo platino al lato del viso e si girò a guardare i suoi compagni di viaggio.
-Ben svegliata, Sere! Dormito bene? -chiese Federico scherzosamente.
-Ehi, Sere! E’ mattina, alzati a inizia a splendere! -continuò Sara accentuando quello “splendere” con un tono da nobildonna.
-Guardate che non stavo dormendo! Pensavo. - rispose un po’ infastidita.
-A cosa? –chiese Denise mostrando la sua curiosità infantile.
-Agli affari miei! – rispose Serena facendo intendere di non voler continuare il discorso
-E in cosa consistono gli affari tuoi? -tornò a chiedere Denise.
-Sono affari miei! Non impicciarti! –
-Dai, dimmi, dimmi! –disse Denise avvicinandosi.
-Smettila, sciocca! Dobbiamo scendere! –rispose sorridendole, poi si alzò dal sedile e scese dall’autobus seguita dai tre ragazzi.
Non erano ancora giunti a destinazione; mancava da attraversare ancora qualche via per giungere alla meta. Cosa si aspettavano di trovare?
Per i tre ragazzi si trattava solo di una piccola gita da adolescenti in una presunta abitazione infestata e anche Serena gli aveva fatto credere che quello fosse il suo scopo, ma si celava ben altro dietro la sua maschera. In realtà cercava risposte ai suoi dubbi, all’enigma che la attanagliava ogni volta che i suoi occhi si perdevano nell’immensità del mondo. Perché mentire?
Perché innanzitutto li voleva proteggere, ma soprattutto perché temeva la loro reazione alla verità. Sentiva che anche loro ci sarebbero saliti su quella tumultuosa giostra prima o poi, ma lei voleva ritardare quel momento il più possibile. Erano poco più che diciassettenni, come lei, ma non avevano i mezzi per difendersi da quel tormento perenne. Trascinata dai suoi pensieri non fece nemmeno caso alla strada, cosicché l’edificio le apparve improvvisamente agli occhi in tutta la sua severità. Aveva quattro piani, ma era più largo che alto, e circondato da una cinta muraria. Già dall’esterno si mostrava in tutta la sua malvissuta vecchiaia: i muri erano crepati e anneriti; non c’erano ne le porte ne le finestre. Una costruzione severa, semplice, di cui era rimasto solo uno spento blocco di cemento. Un tempo i nazisti vi avevano mascherato i loro esperimenti sotto le vesti di un candido ospedale psichiatrico.
Dopo una pausa d’ammirazione, i quattro ragazzi superarono il cancello e attraversarono l’ampio giardino di erbacce e fiori selvatici. Serena sentiva crescere l’emozione ad ogni passo e, allo stesso tempo, la speranza di trovare quelle risposte che aspettava da tanto.
L’interno dell’ospedale si presentava in condizioni ben peggiori: le piastrelle del pavimento erano crepate o rotte e sommerse dalla sporcizia più varia; i muri erano stati completamente riempiti di scarabocchi e scritte colorati e, per finire, la lunga tromba delle scale, unico mezzo per raggiungere i piani superiori, era stata interrotta tra il terzo e il quarto piano.
Serena si tolse la borsa color rosso dalle spalle e tornò indietro per appoggiarla fuori dall’uscio.
-Anghells…- chiamò una nocetta da bambino.
Denise, per lo spavento, si era stretta a Sara che non si mostrava più coraggiosa dell’amica.
-Ma cos’era quella voce?! - disse Sara con voce tremolante.
Federico aveva fatto un passo indietro; aveva gli occhi sbarrati, ma pareva più sicuro.
-Piuttosto vorrei capire cosa ha detto. - disse guardandosi intorno.
Serena era sobbalzata indietro, era quella che provava più paura tra i quattro, soprattutto perché lei aveva capito benissimo cosa era stato pronunciato e questo pensiero la terrorizzava. Tirò un sospiro e cercò di ricomporsi, in fondo di lei non se ne importava molto, ma per le persone che la circondavano era disposta a tutto. Questo pensiero le fece crescere il coraggio che le serviva, avanzò sicura superando i suoi compagni.
-Gli importa solo che l’abbia capito la persona interessata. Forza, andatevene. - disse girando la testa di un quarto.
Federico aveva già sentito quel nome e l’intervento di Serena glielo aveva ricordato, ma non capiva che relazione ci fosse tra loro; l’unica cosa di cui era sicuro era che non c’era niente di buono.
-Muovetevi, fuori. Non so che cosa succederà, ma non vi voglio qui. Aspettatemi fuori qualunque cosa accada. - disse Serena, ma con tono più autoritario.
Sara e Denise corsero subito fuori, ma Federico si fermò un attimo sull’uscio e si girò verso di lei.
- Non hai paura di morire? - chiese preoccupato.
- Non credo di potermi permettere questo lusso. - rispose con un sorriso.
Federico se ne andò fuori sconsolato; non voleva lasciare l’amica in una difficile situazione, ma era tutto così complicato e improvviso che non ci capiva più niente.
Si lasciò cadere contro il muro e lasciò perdere i suoi occhi nell’immensità del cielo pregando tra sé e sé che tutto finisse presto.
Serena iniziò a camminare tra le stanze vuote; c’era di nuovo silenzio, cosicché stava per pensare che ciò che aveva sentito fosse solo un’invenzione, poi lo vide…
Una figura nera, che pareva un uomo incappucciato di spalle, contro un’apertura che prima doveva essere una finestra.
-Cosa ci fai qui? - chiese Serena con disprezzo. “Credevo volessi delle risposte.”Quando sentì quella voce penetrargli nella testa fu sicura di non essersi sbagliata sulla sua identità.
-Tu puoi darmi solo bugie! Smettila!- disse col furore agli occhi.
“Ammettilo: tu volevi vedermi; volevi essere sicura che io esistessi davvero. Dovresti esserne contenta, a pochi eletti dò il piacere di guardarmi.”
-A pochi stupidi vorrai dire! Mi hai preso quando ero più vulnerabile e ti sei servito di me per i tuoi scopi. Non ti perdonerò mai ciò che mi hai fatto!-     [ avanti » ]

di Serena Pirazzi