Quando l'urlo più agghiacciante di tutti mi penetrò nel subconscio fui riportato alla realtà. Per un attimo avvertii ancora nelle orecchie quello che forse doveva essere l'ultimo atto di vita di un essere umano, all'apice della sofferenza, ma intravedevo la camera da letto, almeno quello che la poca luce filtrante mi permetteva di cogliere. Sapevo che quelle grida erano reali, ma mi obbligai a credere che si fosse trattato solo di un terribile incubo. Doveva esserlo a tutti i costi. Mi ero trasferito nel centro storico da quasi tre mesi, in un appartamento al penultimo piano di un palazzo privo di ascensore. L'edificio conservava negli stucchi e in qualche affresco ancora presente sui soffitti, le storie di una dimora che in passato aveva vissuto un certo fasto e dai muri trasudava impercettibile l'eco dei raffinati trascorsi di un'antica casata nobiliare. Aprii leggermente le pesanti persiane, alte circa tre metri, per sbirciare il cielo e non fu piacevole notare che la giornata si preannunciava gravida di pioggia e piuttosto ventosa. Non che la cosa mi importasse più di tanto; non uscivo più da casa dal giorno in cui vi avevo messo piede in pianta stabile, ed avevo comunicato per telefono le mie dimissioni dal posto di lavoro. In quella circostanza mi resi conto della scelta insensata, ma dal momento in cui era cominciato tutto questo, non avrei potuto fare a meno di rimanere chiuso in quel grande appartamento dagli affreschi cadenti, almeno fino a quando non avessi concluso quanto mi ero prefissato. Era implicito che non avrei mai invitato alcun individuo a casa mia; avevo pregato anche il padrone di casa, un vecchio fumatore di pipa dallo sguardo severo e folti baffi bianchi, di lasciarmi messaggi nella cassetta o di telefonarmi, facendo trapelare un'immagine di me molto vicina a quella di un artista introverso, amante della solitudine. Quello che importava a lui, e a quelli come lui, era solo di ricevere puntualmente la pigione, ma non si curava molto della persona che occupava l'immobile. D'altra parte, l'inquilina precedente, non aveva mai dato grossi problemi in tal senso: pagava puntualmente - così mi disse il vecchio - ed era un peccato che fosse scomparsa improvvisamente, senza neanche ritirare la caparra di garanzia. Personalmente sarei riuscito ad onorare l'affitto ancora per un paio di mesi, utilizzando i pochi risparmi che mi rimanevano, ma forse avrei avuto tempo sufficiente per terminare quello che dovevo fare.
Le grida erano iniziate fin dal principio. Non osavo credere che provenissero dall'interno della mia casa; l'appartamento occupava tutto il piano nobile dell'edificio, e le mura perimetrali davano sui vicoli adiacenti e sulla piazza antistante, e pensai inizialmente che i rumori giungessero da fuori, oppure dagli appartamenti sottostanti. Sopra la mia abitazione si trovava invece una mansarda disabitata da anni. Sebbene mi fossi in un primo tempo convinto di tutto ciò, trovai successivamente arduo e soprattutto fasullo ammettere che i suoni che ormai da settimane tormentavano le mie notti e successivamente imperversavano anche nelle ore diurne, provenissero da luoghi esterni alla mia abitazione. Erano troppo chiari e spesso mi capitava di distinguere anche alcune parole, sebbene senza senso compiuto. Avevo vagliato ogni possibilità, ma non trovando una spiegazione plausibile, cominciai a frugare nei più reconditi meandri del grande appartamento, tanto più che tale era lo scopo della mia permanenza lì dentro. Ogni antica dimora che si rispetti, come tramandatoci dall'immaginario collettivo, mantiene al suo interno l'anima di coloro che l'hanno abitata, soprattutto se in qualche modo essi hanno avuto a che fare con fatti di sangue; ma come talvolta avviene, in essa sono contenuti anche i segreti più importanti del defunto, quelli che in qualche modo egli prima della dipartita abbia voluto preservare, opportunamente occultati, dalla volgare curiosità degli uomini e dall'uso improprio che essi avrebbero potuto farne. Non avevo mai creduto a questa storia, fino al momento in cui, sei mesi prima di entrare in quella casa, avevo scoperto qualcosa sul mio passato che avrebbe cambiato per sempre i miei pensieri e la mia esistenza.
Di cognome facevo Vacchero, e tutto era cominciato il giorno in cui ebbi la sventura di interessarmi all'origine del mio ceppo familiare. Attraverso lunghe e complesse ricerche venni a sapere con quasi totale certezza che sfoggiavo con tranquilla non curanza l'appartenenza ad una stirpe maledetta. Scoprii che il mio bis, bis e poi bis bisavolo, Giulio Cesare Vacchero, vissuto nel diciassettesimo secolo, era caduto in disgrazia per aver cospirato contro il Doge e che nel 1628 egli fu decapitato con ignominia. Gli furono confiscati tutti i beni e demolita la dimora ove abitava. Caso vuole che fra i beni confiscati ci fosse l'antico piano nobile di un palazzo, allora abitato da una nipote, che fu sfrattata per ordine del Governo. La dimora fu messa all'asta ed acquistata da un certo marchese De Reges, che a quel tempo prese parte attiva al processo contro il Vacchero, avendo svolto un ruolo fondamentale nella costruzione dei capi d'accusa. Si dà il caso che il De Reges fosse studioso di magia nera e occultismo per conto del Doge e i suoi studi avessero lo scopo di confutare l'attendibilità di certe pratiche esoteriche e mettere al bando gli eventuali proseliti. Nel corso delle mie ricerche in vecchie e polverose biblioteche, venni a sapere altresì che il mio antenato aveva dedicato tutta la sua vita a studi inconsueti, mosso dalla febbrile curiosità di cogliere il mistero dell'eternità attraverso il fenomeno della metempsicosi. Più in particolare, pare che il Vacchero avesse svelato, annotandolo su un diario segreto, l'enigma della trasmigrazione dell'anima attraverso i propri discendenti, e furono probabilmente questi studi a decretare la sua condanna, piuttosto che le pretestuose accuse di cospirazione. A distanza di secoli nessuno si sarebbe più posto il problema di un eventuale ritrovamento, ma un'idea si insinuò a piccoli passi nella mia mente, quando seppi da fonti attendibili, che il diario del Vacchero non era mai stato ufficialmente rinvenuto.
Avvenne che in quei giorni di febbrili ricerche, mi trovavo a fare acquisti nei budelli del centro storico e mi ero soffermato presso la vetrina di una bottega d'arte, ove venivano esposti a prezzi inaccessibili alcune tele raffiguranti tempeste e cieli plumbei squarciati da lampi spaventosi. Il negoziante, dall'aspetto simile alle sue tele incartapecorite, mi si era avvicinato cercando di carpire un mio possibile interesse alla merce esposta. Mentre stavo per allontanarmi infastidito, egli distolse lo sguardo per seguire qualcosa che avveniva alle mie spalle. In realtà mi girai anch'io incuriosito e vidi una donna sulla cinquantina, vestita elegantemente, che solcava l'antico selciato lasciando al suo seguito oltre che un ottimo e costoso effluvio, anche l'echeggio dei suoi tacchi alti e sottili. L'aspetto altezzoso della donna, la lunga chioma dorata, e l'andatura sostenuta ma misurata, esercitarono subito su di me un certo magnetismo . Il commerciante d'arte, mi rivelò con viscida complicità, che si trattava di una donna molto particolare, di nobili e antiche origini, che con il suo fascino aveva stregato molti uomini. Si diceva che possedesse poteri soprannaturali, ma erano pur sempre voci di popolo, e quella donna, d'altra parte, era fatta di carne e in qualche modo sottostava alle regole dei comuni mortali. Negli ultimi anni, spinta da necessità economiche era stata costretta a vendere sotto costo l'appartamento in cui viveva, passato di generazione in generazione, e che aveva ricevuto in eredità. Ottenne però dal nuovo proprietario il permesso di rimanervi dentro, pagando un modesto affitto. Viveva sola e non aveva parenti prossimi, forse neanche amici, quelli veri, intendo. Il commerciante mi additò il piano nobile di un edificio nella piazza antistante la bottega, e svelò con un sorriso spregevole che la donna era una prostituta d'alto rango, che esercitava per conservare quel tenore di vita che ella riteneva si addicesse ad una persona di nobili origini. Accomiatatomi dal commerciante, mi bastò una rapida occhiata ai pochi nomi presenti sulla pulsantiera citofonica dell'antico palazzo, per aver conferma di quanto mi era balenato nella mente pochi istanti prima. Non poteva trattarsi di un caso; il cognome della donna, quel palazzo, l'antico piano nobile, quella piazza, tutto collimava con le mie ricerche, tutto portava alla storia del mio avo, alla sua decapitazione e all'acquisizione dell'appartamento da parte del marchese De Reges, il cui cognome, se pur senza titolo nobiliare, compariva sulla pulsantiera, alla destra del grande portone di legno massiccio. Da quel momento la mia vita avrebbe avuto senso solo se avessi perseguito un solo unico grande scopo. Tutto il resto perse gradualmente consistenza, gli affetti furono dimenticati, tutti i miei beni persero di valore, e solo un unico preponderante pensiero rimase ad occupare ogni possibile spazio della mia mente.     [ Vai a pagina: 2 » ]