Una storia di famiglia tramandata, giunta fino a me non si sa come, ma evidentemente aveva colpito l'immaginario di tutti i miei predecessori; logicamente mancano molti particolari, perduti nel corso degli anni e quindi una storia che non mi è possibile verificare, ma comunque, visto che contiene qualcosa d'arcano e affascinante, la racconto arricchendo un po' i particolari e ambientandola, ma lasciando il fatto così come mi è arrivato.
Anno 1850 circa, maremma laziale. Sono anni duri per tutti. Il Papato domina indisturbato nonostante abbia subìto i primi scossoni a causa dei movimenti rivoluzionari che vogliono un'Italia libera e unita, ma continua la sua politica chiusa e poco illuminata. Nel Lazio, come in altre regioni, la povertà e l'intransigenza papalina, costringono molti a darsi al brigantaggio come unica soluzione ad una vita fatta di stenti e di miseria. Le macchie e i boschi, all'epoca molto estesi e per molti tratti impraticabili, offrono rifugio e protezione a queste bande di fuorilegge. Vivono di furti e grassazioni rendendo le strade insidiose da percorrere e le campagne pericolose per quei pochi che vi abitano.
All'epoca si viaggiava a cavallo, in calesse, a piedi e anche un tragitto di alcuni chilometri diventava un problema, figuriamoci percorrerne 47 che è la distanza fra Corneto (come si chiamava allora la mia cittadina) e Viterbo. Il mio avo doveva coprire quel percorso frequentemente per interessi economici e quella notte ritornava dopo uno di questi "viaggi".
Aveva ritardato la partenza da Viterbo per suoi motivi e quando lo colse un temporale, forte e violento, si trovava a passare lungo il tratto più brutto e deserto del tragitto.
Acqua a scrosci, la strada, bianca e polverosa si è già ridotta ad un fiume melmoso, la macchia mediterranea che lo circonda delimitando la via, folta e in alcuni punti impenetrabile, s'accende alla luce dei fulmini e il tuono riecheggia in echi paurosi. Avvolto nel mantello, con un grande cappellaccio a coprire il capo reclinato in avanti per evitare la violenza della pioggia, si affida più all'istinto del cavallo che alla sua vista per seguire la strada e tornare a casa. Grondando acqua uomo e animale procedono ambedue impauriti e intimiditi; probabilmente lui prega: "- Santa Barbara e Santa Elisabetta tenete lontano il fulmine e la saetta…".
Al fragore di un tuono, più forte degli altri uno scarto improvviso del cavallo; c'è qualcosa che deve averlo impaurito, non può essere stato il solo boato, deve esserci un altro motivo per farlo reagire in quel modo. L'esperienza lo mantiene in sella; abituato a trattare con i cavalli, riesce a calmare la bestia e intanto scruta intorno a sé cercando di penetrare con lo sguardo l'oscurità e la cortina di pioggia. Sembra che non ci sia nessuno, ma trattiene il cavallo per restare fermo sul posto; se è stato qualcosa d'umano a spaventare l'animale non possono essere altro che i briganti e in questo caso è meglio restare fermi ed aspettare che si mostrino, altrimenti si rischia di finire ammazzati.
Un fulmine e gli alberi prendono un aspetto spettrale e minaccioso, i rami dei rovi sembrano protendersi per afferrarlo, il cavallo sbuffa innervosito, i grandi occhi sbarrati e la pupilla dilatata; l'odore di ozono completa quella scena inquietante e quasi infernale e c'è qualcosa di biancastro e di evanescente che si muove, è una forma umana quella che cerca di rifugiarsi nell'immobilità approfittando della tenebra e degli arbusti per non farsi vedere.
Impietrito e ancor più gelato nel corpo e nella mente, rigido in sella lui attende, passato il timore dei briganti ora ricorda storie di bianchi spettri ghignanti e spaventosi, di fantasmi che appaiono e scompaiono, di demoni e altre immagini mostruose catturate dal suo subconscio cattolico e altre partorite dalla fantasia popolare. Vorrebbe spronare il cavallo e fuggire, ma qualcosa lo trattiene nell'attesa di un altro fulmine che gli mostri la stupidità delle sue paure e naturalmente anche la curiosità di capire che scherzo gli abbiano giocato gli occhi.
Ora la pioggia diminuisce d'intensità, le nuvole nere corrono nel cielo inseguendosi, urtandosi; il tuono esplode ancora violento e fragoroso e finalmente nel bagliore del fulmine la scena si accende ed eccola lì, la forma bianca, acquattata, immobile nell'oscurità.
Sembra una donna…
Non ci sono casali nei dintorni, non c'è nulla per una ventina di chilometri, potrebbe trattarsi di una vittima dei briganti che ora impaurita si nasconde?
Scende dal cavallo e lo lega ad un ramo, cauto avanza verso quella figura che intravede tra gli arbusti e che cerca di nascondersi ancor di più, di farsi piccola.
Un'altra saetta e… nella luce intensa c'è la certezza: è una donna, giovane, raggomitolata a nascondere il suo corpo nudo dallo sguardo dell'uomo che, immobile e stupito, la osserva incredulo. Una specie di gemito, un lamento cupo d'animale esce dalle sue labbra; negli occhi, grandi e accesi da una luminescenza strana, una sfida ed una preghiera.
Rapido, senza una parola, lui si slaccia il mantello e lo pone sulle spalle della donna che continua, tremante, a fissarlo. Poi, avviluppandosi nelle falde dell'indumento, si alza in piedi con un leggero sorriso. I capelli neri, zuppi d'acqua le cadono intorno al viso disegnandolo ed evidenziandone il colorito pallido, dove spiccano, caratterizzandolo, gli occhi e il naso. Nei suoi modi c'è qualcosa che la fa sembrare più alta di quello che veramente è: una distinzione, un qualcosa d'arcano che emana da lei in modo forte, come un fascino, una malia strana che prende coloro che le stanno intorno. La sua voce è dolce, quasi ipnotica e si rivolge al mio avo dicendogli: "- Per trenta generazioni la tua famiglia non avrà nulla da temere da streghe e fattucchiere, nulla potranno contro di voi grazie al tuo gesto, e, adesso, vai…". Lui silenzioso torna al suo cavallo e quando è in sella si volta per guardarla; ha finalmente superato lo stupore e vorrebbe chiedere, domandare, ma non c'è più nessuno tra gli arbusti che ora sono illuminati dalla luna e mentre i grilli iniziano a cantare sprona il cavallo e ritorna lentamente a casa.
Questi sono i fatti tramandati, non credo che sia stata un'allucinazione, neppure una storia creata per darsi importanza: lui era una persona schiva, poco socievole e non aveva bisogno d'inventarsi favole per destare l'attenzione altrui. Scarto anche l'idea che possa essere stato vittima di un burlone: chi si sarebbe azzardato ad andare così lontano dal paese in una notte come quella? A quel tempo chi poteva, al calare della sera, rientrava in casa e le porte del paese venivano sbarrate e c'era bisogno, negli orari "strani", di un permesso speciale sia per entrare che per uscire.
Se l'incantesimo ha dato buoni risultati proteggendoci effettivamente dalle "fatture" io non posso dirlo, dovrei cercare una strega che mi confermi la mia "invulnerabilità" a certe pratiche malefiche… Di Befane ne conosco tante, ma streghe, purtroppo, nessuna…

di Notturno