[ « indietro ]     Bob si trovò d’improvviso catapultato all’esterno.
Si trovava in una specie di maneggio; una moltitudine di cavalli brucavano l’erba attorno ai suoi piedi invisibili, il sole splendeva alto e brillante nel cielo, l’orizzonte terso e limpido scrutava con paziente benevolenza gli uomini che si agitavano al suo cospetto.
Si avvicinò alla famiglia Sellinger riunita attorno alla sedia di Stweart, intento ad accarezzare il muso di un baio recalcitrante e nervoso.
Margareth era ritta al fianco del marito, disorientata, il volto coperto da una veletta bianca che nascondeva un rossore che le percorreva l’intero volto, i resti dell’ustione causata da suo figlio.
Lawrence era impettito, muto ed assorto.
Lo stalliere era intento a trattenere le redini del cavallo con cui Stewart stava giocando.
Vista da fuori sarebbe parso un commovente quadretto di famiglia: un’eterea signora che insieme al compunto marito, tenta di far divertire il figlioletto infelice.
Stewart si voltò verso il vicino capannone del maneggio, un fucile a canne lunghe svolazzò silenzioso dalla costruzione di legno fin nelle sue mani.
La madre gridò.
Il ragazzo le puntò il fucile all’altezza del petto e fece fuoco.
La donna fu scaraventata all’indietro dall’impatto del proiettile, compì un’atletica piroetta su sè stessa, prima di piombare sulla schiena nell’erba fresca e bagnata dalla rugiada del mattino.
Una macchia vermiglia si allargò sul pizzo del suo vestito candido, un foro scuro e fumante sbirciava dal centro della macchia come un occhio ciclopico.
Lo stalliere corse nella direzione della donna, Stewart sparò ancora colpendolo alle spalle, l’uomo morì riverso sulla sua amata.
Lawrence si avvicinò al figlio, ma lui lo colpì alla testa con un ultimo colpo; il sorriso sul volto dell’uomo fece rabbrividire Bob più della stessa serie di omicidi.





Si destò urlando.
La cripta era rischiarata dai primi raggi dell’aurora, era mattina, la notte era trascorsa.
Si alzò a fatica e si guardò attorno attonito.
Tutto sembrava esattamente come lo aveva lasciato la notte precedente.
Ma lo aveva davvero lasciato?
“Un sogno” gridò alla sala vuota “è stato solo un fottutissimo sogno” .
Cominciò a piangere e ridere all’unisono.
Saltava.
Urlava.
Rideva.
Era vivo, sano, e membro del Pkk.
Jason giunse pochi attimi dopo.
“Hey, bello!” esclamò soddisfatto “ce l’hai fatta!”.
“Puoi dirlo forte amico, ce l’ho fatta” canticchiò Bob.
I due uscirono dalla cripta dandosi poderose pacche sulle spalle.
Il cimitero di giorno non incuteva nessun timore, riflettè fra sè e sè Bob divertito, solo una serie di innocue lapidi spoglie ed anonime, nulla che potesse fargli del male.
Giunti nella Vitara, Ector, che li attendeva al posto di guida, li accolse con uno splendido sorriso, li fece montare e si diressero sgommando alla volta del campus.
“Com’è trascorsa la notte, grand’uomo, sei riuscito a prendere sonno o sei rimasto a fissare le lapidi con occhi sgranati da cucciolo ferito?” chiese Ector.
“Ho dormito come un bambino” rispose Bob spavaldamente.
“Ma che bravo” enfatizzò Jason “il futuro dottore ha coraggio da vendere, allora”.
Arrivarono al campus in pochi minuti.
Bob si tuffò sotto la doccia appena giunto nel suo piccolo appartamento studentesco.
Le immagini ancora vivide di quello strano viaggio onirico gli affollavano ancora i neuroni, aveva negli occhi i lampi delle detonazioni, ma il ragazzo? Chi aveva sparato al ragazzo? Scosse con forza la testa, scrollandosi di dosso i pensieri e la schiuma dello shampoo.
Verso le undici della stessa sera Jason lo passò a prendere, per condurlo alla festa in suo onore che il PKK aveva organizzato per dargli il benvenuto nella confraternita.
Il circolo goliardico era sito in un vecchia costruzione, tenuta, a dire il vero, in ottimo stato, posta all’estrema periferia ovest del campus.
Dalla porta spalancata provenivano le urla disperate dei Megadeth, un vecchio album della band di Mustain rallegrava gli animi e stordiva le menti.
Bob entrò gridando e l’intera brigata gli rispose con un ovazione di gaudio.
Una ragazza discinta e già quasi completamente ubriaca gli gettò le braccia al collo e gli fece scivolare la lingua fra i denti, travolgendolo in un bacio mozza fiato.
“Wow!!” urlò Bob.
“Che ti avevo promesso bello” gli fece eco Jason “le ragazze più esclusive e più disponibili del campus ai tuoi piedi. Questo significa essere un membro del PKK”.
Bob passò da una birra all’altra, da una bocca ad un’altra per quasi tre ore, poi, stanco, si ritirò in una delle stanze al secondo piano, alla frenetica ricerca di un bagno.
“Buon Dio” sghignazzò alla sua immagine riflessa nello specchio sopra il lavabo di un bagno in penombra.
Si sciacquò il volto e si voltò.
Gridò.
Stewart era ritto di fronte a lui.
I piedi penzolavano a quasi dieci centimetri da terra, il volto cereo solcato dalla cicatrice irregolare, le mani artigliate lungo i fianchi.
“Hai ragione Bob” sussurrò “a me nessuno ha mai sparato”.
“Ma tu sei morto, sei...un...”.
“Cadavere, ricordi Bob? Carne data verminibus.Ca-da-ver. Cadavere. Non hai sognato Bob”.
Bob cadde sulle ginocchia.
“Ma tu sei morto, vero?”.
“Oh sì, sono morto di malattia quasi...cento anni fa, ma una mente superiore non muore mai Bob, un fenomeno diabolico come me non può morire Bob”.
Il ragazzo gli si avventò addosso ghermendolo con le mani adunche.
Bob gridò fino a svenire.




“Bob, ma che fine avevi fatto, è quasi un’ora che Lucy ti cerca, quella donna è pazza di te bello!” disse Ector cingendogli le spalle con un braccio.
“Tutti sono pazzi di me Ector” rispose Bob divincolandosi.
“Bob, ma come ti sei fatto quella cicatrice sul labbro?”.
“E’ un ricordo di famiglia” sorrise “nulla più”.
“Ma non l’avevi ieri sera, e nemmeno questa mattina, anzi non rammento di avertela mai vista...”.
Bob si voltò verso Ector e lo fissò con intensità.
Il capo del PKK si portò le mani alla testa ed urlò di dolore, un fiotto di sangue gli zampillò dal naso e dalla bocca spalancata, quindi si accasciò a terra esanime.
La musica continuò a tuonare.
Le ragazze a ballare.
Bob abbandonò la sala levitando a mezz’aria.


di Vampire