Una lampadina da pochi watt appesa ad un filo scendeva dal soffitto come un ragno. Discreta offriva una luce giallognola sulla tavola imbandita di sapori da triturare, ingoiare, digerire. Attendevo il borbottare della moka. Il liquido nero e profumato avrebbe destato in me tutta la voglia di scorazzare per quella discesa non ancora asfaltata alla fine della quale avrei deliziato il palato con un gelato.Un batter di mani da parte del capotavola dava ai partecipanti il permesso di alzarsi dalle proprie sedie. A turno si dirigevano a prendere il proprio golfino appesi all’attaccapanni da parete. Senza il golfino non si poteva abbandonare la casa e di conseguenza si rinunciava alla passeggiata serale. La processione di stomachi gonfi con i loro golfini mi avrebbe atteso sul ciglio della strada. Non riuscivo a trovare il mio golfino.
Un lungo respiro e infusi coraggio alle mie gambe con uno scappellotto ai polpacci, dovevano affrontare una gran prova di coraggio nella più completa solitudine. Dovevano salire per quella scala di legno d’ebano instabile, scricchiolante che portava al piano superiore dove si trovavano le camere da letto.
Sapevo che mi avrebbe accolto una luce in fin di vita, ma questo sapere non bastava a frenare la ferocia del mio respiro, oramai diffuso in tutta la casa. La luce avrebbe reso visibile tutte le mie paure affinché io potessi sia riconoscerle sia chiamarle per nome, ma c’era qualcosa d’estraneo che si aggirava tra le mie paure. Prepotente attraversava tutta la stanza, una volta era alle mie spalle accanto alla finestra e alla scala di legno d’ebano e altre volte alla mia sinistra vicino alla porta che avrebbe reso, dalla sua uscita a me, più vicino il luogo d’incontro con la processione. Quale nome avrei mai potuto dare a questo qualcosa che mi regalava un senso di vertigine e di nausea? Un nome qualsiasi che avrebbe così consentito al mio cuore di ritornare alla propria sede d’origine. No, quel nome avrebbe dovuto aspettare proprio come io attendevo il salire quei passi su per la scala esterna.
Passi di un corpo pesante salivano a fatica, aiutati dalla mano che si lasciava grattare via la pelle dal muro frastagliato. La pianta del piede affondava come l’ancora di una nave ad ogni gradino. Passi, zoccoli ferrati salivano in gola strozzandone il respiro. Battevano ritmici sui gradini il loro arrivo animale, ansimanti e famelici. Passi fantasmi, mostruosi, diabolici. Passi, ora, sull’attenti dinanzi alla porta, senza nome né campanello né numero civico in una via senza nome né storia. Percepivo l’energia e il calore di un corpo senza ossa né carne. Un’energia che non avrebbe mai potuto solcare quella porta perché sarebbe stato come pretendere che la luna piena entrasse dalla finestra alle mie spalle. Qualcosa di magico e misterioso aveva catturato la mia attenzione. Con un incantesimo quell’energia pur restando fuori riuscì a far tre mandate con la chiave nella serratura interna. Dette un colpo leggero alla porta affinché questa restasse semiaperta. La paura si mutò in curiosità
e il terrore in sfida. Adesso era tutto un gioco. Un gioco tutto adulto.
I passi scesero leggeri, come se si fossero tolti da dosso un peso. Sgattaiolai fuori della porta che chiusi alle mie spalle con la chiave ancora nella serratura interna.. Quei passi erano il miele ed io l’orso ingordo senza il suo golfino. Seguii l’ombra di quei passi. Un’ombra deforme desiderosa solo di essere seguita. Una macchia di china sulla carta assorbente della mia mente di bambina.
Le case si affacciavano sulla via stretta e senza aria con le finestre e le porte sbarrate, le luci spente, appena percepibili le voci delle tv. Il cielo spaventosamente basso, come se volesse cadere, e ogni creatura volante e strisciante taceva vigile sulle nostre ombre. All’improvviso un richiamo venne a spezzare quella pace: “Noi andiamo”. L’ombra e i suoi passi svanirono, le finestre e le porte si aprirono, le luci si accesero, le voci delle tv distinte padroneggiavano sulle rumorose stoviglie. Corsi più veloce che potevo sul ciglio della strada ma della processione nessuna traccia, come se fosse svanita nel nulla. Non sapevo orizzontarmi, non conoscevo il posto in cui mi avevano portato per trascorrere un breve soggiorno. Ogni parte del mio corpo si sentiva attratta da quel qualcosa ancora così estraneo e senza alcun nome. Tornai nel punto preciso dove l’ombra con i suoi passi svanì. E vidi una porta e si udirono scoppiettii di legna sul fuoco e nenie in una lingua che non capivo ma che mi riempiva gli orecchi.
La porta era semiaperta e alquanto ammuffita, ne lasciava uscire un odore di marcio e putrefatto. Appena i miei occhi curiosi vi caddero dentro tutto ritornò come prima : le finestra e le porte sbarrate, le luci spente , appena percepibili le voci delle tv in quella via stretta e senza aria. I miei occhi spalancati per catturare più immagini possibili da conservare nella mia mente di giovane donna. (Sì, perché non mi sentivo più una bambina). Vidi delle tuniche rosse e nere appese a dei chiodi e delle maschere d’animali, molti candelabri e candele spente e fiamme rosse danzare sulla parete e su di un tavolo … il mio golfino … Un attimo, non capisco, non c’è camino, non c’è, c’è il mio golfino. Due mani si appoggiarono sulle mie spalle, pesanti mi immobilizzarono non solo il corpo ma anche il respiro. La mia voce non aveva il coraggio di emettere alcun suono. Temevo che fosse arrivato il proprietario di quella strana casa. Pensavo a quale punizione sarei andata incontro. Pensavo al mio golfino. Quale
scusa avrei mai potuto trovare. Ecco mi sento di nuovo una bambina con gli occhi traboccanti di lacrime e senza il suo golfino. Una bambina maleducata e infreddolita a cui nessuno avrebbe mai creduto. Ma nessuno dovrà mai credermi perché io non racconterò mai nulla. La mia voce sarà il silenzio, le mie parole aria e il mio pensiero vento.
“Ben venuta! Ti stavo aspettando! Entra pure a prendere il tuo golfino.”

Aprile 2004


di Libera Càrpino