Cassandra spense la sigaretta e si abbandonò ai pensieri che frequentemente popolavano la sua mente nelle sere d’autunno.
Il fumo del mozzicone, salendo sinuosamente nell’ aria, sembrava disegnare dei fiori i cui petali svanivano come azzurro etere nel soffitto.
Fuori una lenta e fitta pioggia lavava le strade semideserte e le nuvole erano grigie pietre che apparivano più come buffi palloni fluttuanti.
I suoi occhi erano lucidi, le palpebre semichiuse nascondevano un velo di lacrime, eppure ciò che le divorava il cuore e l’animo non era tristezza, ma una strana attesa. Provava speranza pur sapendo che non aveva nulla su cui sperare.
Erano ormai passati tre anni dalla prima volta che lo aveva incontrato, eppure da quel momento la pioggia autunnale le aveva fatto sempre un effetto particolare, le aveva fatto provare lunghi brividi su tutta la schiena e soprattutto aveva sempre rapito la sua mente in maniera quasi inconscia, senza alcuna spiegazione apparente.
Ma Cassandra sapeva il motivo per cui la sua anima si lasciava prendere da quella voglia di ‘fuggire’ tutte le volte che il cielo piangeva e il sole si spegneva come la fiammella di una candela.
La stanza era piombata nell’ oscurità, ma le luci che filtravano dai vetri della finestra facevano intravedere le sue mani che adesso tremavano impercettibilmente e si stringevano.
Quell’ incontro, ammesso che non fosse stato un semplice sogno, era ancora vivo nei suoi occhi, come un fantasma che non spariva perché non poteva o non voleva sparire.
Proprio adesso sentiva il tocco di quelle mani sulla sua pelle, l’abisso che sembrava inghiottirla, la voce che si insinuava nelle orecchie con una leggerezza che avrebbe fatto svenire anche il più appassionato ascoltatore di musica classica. E lei si mordeva il labbro inferiore, posseduta da quegli attimi che le facevano sussultare il petto come fossero vivido fuoco.
Una nuova notte aveva spiegato le sue ali e il rito sarebbe stato compiuto ancora una volta: uscì e si concesse a quel freddo abbraccio, lasciandosi baciare dalla luce argentea della luna alla quale aveva sempre parlato senza avere altra risposta che il dubbio.
Mentre si recava verso il luogo che aveva segnato in un certo senso il suo destino, rendendola un brandello di tenebra, i lampioni le sembravano immense lucciole e le persone non erano altro che ombre vaganti prive di una vita. Nessun’altra meta era stata più importante come quel luogo: il parco che l’aveva vista bambina, quando correva spensierata alla luce del giorno, e che adesso la richiamava incessantemente, come un’ entità affamata che circuiva la sua preda.
Venne quel giorno in cui lei sembrò trovarsi davanti ad un bivio e nel momento in cui accettò quella dolce condanna, la sua esistenza sembrò frammentarsi in minuscole lacrime raccolte dalla mano di colui il quale l’aveva consacrata. Il rumore dei suoi passi sull’erba umida le risuonava nella testa come un’eco lontana e altrettanto lontano dal mondo le sembrò il posto dove era giunta; un piccolo pezzo di terra sospeso nel vuoto.
Cassandra si fermò e per un breve istante rimase ad ascoltare i battiti del suo cuore. Scrutò con occhi attenti tra le ombre degli alberi, studiò ogni singolo rumore provocato dal vento…
Trattenne il respiro, dopo si mosse verso una zona circondata da alcuni cipressi e meno illuminata. I suoi piedi si muovevano come se fossero spinti da un’inspiegabile malia; non sentiva neanche più le fredde gocce di pioggia che le inzuppavano i capelli. Nulla contava in quel piccolo ma infinito istante.
Infine si fermò una seconda volta in un punto in cui l’erba mancava e la terra scura sembrava disegnare uno strano simbolo: una croce all’interno di un cerchio e fuori di questo dei segni che somigliavano a rune.
Fu in quel momento che sussultò. Giurò a se stessa che qualcuno la stesse osservando tra la nera vegetazione. Esitò… ebbe quasi paura… dopo rimase ad ascoltare il vento e le sue ansie si quietarono un po’.
Si inginocchiò su quella strana immagine e su di essa posò una rosa rossa.
Ogni notte compiva quell’azione e ogni notte le sembrava di ripiombare nel passato, quando aveva visto quell’ uomo e nulla avrebbe avuto più significato da allora.
Era un individuo alto, vestito tutto di nero, con i capelli biondi e lunghi e la pelle diafana. Si erano guardati e lui le si era avvicinato.
Quegli occhi… Cassandra non aveva mai visto occhi più magnetici di quelli.
Pupille di colore azzurro opaco che sembravano contenere il mare… ma forse c’era qualcosa di più. Infondevano un calore che si propagava dentro il suo corpo, e lei sentiva crescere dentro sé il desiderio di tuffarsi in quelle iridi vive e pulsanti. Un brivido che sembrò scuoterle tutta l’anima, dopo la sua vista sembrò svanire e si trovò tra le braccia di quel misterioso adone, senza che nessuno di loro due avesse proferito parola.
Fu a quel punto che Cassandra udì la sua voce – “Donati a me” – e quella frase le si insinuò nel cuore, come una freccia che non dava dolore ma che la privava delle forze con una ipnotica voluttà, e ciò che avvenne successivamente fu solo nero.
Il rumore di un tuono risvegliò la ragazza dal suo stato di estasi. Era rimasta inginocchiata a guardare la rosa e solo adesso cominciò a sentire freddo.
Ancora una volta lui non era venuto, ma lei sarebbe sempre tornata per aspettare colui al quale apparteneva per l’eternità.
Lentamente si toccò la parte sinistra del collo all’altezza della giugulare e sentì pizzicare i due piccoli fori che aveva da tempo in quel punto.
Aveva capito… aveva accettato tutto… aveva ceduto una parte di sé. Ora doveva solo aspettare.
Cassandra si alzò e, dopo aver dato un’ultima occhiata al cielo dilaniato dal temporale, se ne andò portandosi dentro un cupo cordoglio.


di Necrodaimon