Pioggia, incessante in tutto il suo cader dolce e violento.Carezza, come di lacrime angeliche. E’ il cielo che piange, nero in volto, non più del sottile pallore delle nuvole. Le ombre sembrano animarsi in questa notte stanca, sembrano voler prendere vita in questa lunga notte oscura, silenziosa ascoltatrice di atroci confessioni.

I miei passi risuonano ancor di più tra le grigie strade deserte, ora che il silenzio a rotto il rumore che lo teneva prigioniero. E tra i palazzi riecheggia ancor quel mio triste canto malato, troppo triste…

Edward. Da quand’ero ancora in fasce questo nome si protraeva incessantemente nelle mie orecchie. Edward, qualcuno che ho sempre odiato con tutto me stesso, una specie di promessa immantenibile fatta a mia madre da prima che io nascessi. Delle catene attorno ai miei polsi sottili di neonato, poi invisibili manette quando crebbi. Mi sentivo in trappola, in quella solitudine di bambino la cui mente era già troppo in là con gl’anni, quasi sentissi la mia testa esplodere a causa del mio cervello troppo grande e del crescente numero dei pensieri contenuti in esso, e sempre più inadeguata alle reali dimensioni del mio corpo. Ma Edward rimaneva sempre lì, ad osservarmi sorridendo mestamente, così come si sorride ad un condannato ancora inconsapevole di quale sarà la pena che gli verrà assegnata.

Nel frattempo tutti quelli attorno a me aumentavano le loro improbabili aspettative tanto quanto gli sfarzi che decoravano i loro sogni.

Mentre mi apprestavo agl’undici anni, la mia camera già andava assomigliando allo studio di un medico dottore, lasciata ormai da parte l’età dei giochi per lasciar spazio a quella ancor troppo precoce dello studio. Le pareti della mia vita si andavano stringendo attorno al mio corpo magro ed impaurito, mentre i miei grandi occhi neri fissavano il sogno della felicità infrangersi, come se, in effetti, non ci fosse necessità di essere felici nella vita, non più almeno di quanto il bisogno di ricchezza ne conferisse.

Ma gli anni non possono passar così, vacui, senza che qualcosa avvenga.

Alla mia finestra, ogni pomeriggio, fino a sera, osservavo il volo degli uccelli, le loro piroette, le impicchiate. Osservavo i loro corpi agili planare sino a sfiorar quasi il terreno, per poi rialzarsi e bagnar le loro ali al cielo. Ogni sera poi qualche piuma bianca, nera o marrone che fosse, andava a posarsi sul mio davanzale, un attimo prima che il freddo pungente della mia regione mi accigliasse la pelle. Era così, invece di studiare, ogni giorno guardavo il mondo spegnersi e riaccendersi al di qua di una fredda lastra di vetro opaco.

I libri rimanevano però la mia unica e più vera fonte di svago. Non potevo sopportare che mi si dicesse cosa fare della cultura che avevo a disposizione in quei voluminosi ammassi di carte, e preferivo invece immerger i miei occhi come fossero le mie mani in quel mare di parole tanto misterioso ed ugualmente comprensibile. Era il Mar Rosso quello, che si apriva d’innanzi ad ogni mio sbatter di ciglia per lasciar passar i miei pensieri in fuga. Ma non sapevo ancora, in quei giorni di nascosti desideri, che i piani che Edward aveva preparato per me erano molto diversi.

Edward era alto e longilineo. Possedeva una folta capigliatura nera, i suoi occhi spiccavano sul viso pallido, quasi quanto le labbra sottili e rosse. Ma la cosa che mi affascinava e spaventava di più allo stesso tempo di quel volto erano i denti. Edward possedeva una dentatura immacolata e luccicante. La regolarità dei suoi molari, dei suoi incisivi e dei suoi canini era sorprendente; le gengive, pallide anch’esse, si coloravano di mille desideri carnali che probabilmente poi Edward sfogava con gran compiacimento del resto della famiglia. Le sue braccia, pur essendo tanto sottili, possedevano una forza eccezionale e molto spesso le sue mani si erano posate sul mio corpo, con le dita lunghe e leggere, eccezionalmente agili, portandomi a concepir il dolore come soglia estrema del piacere più intenso.

Quando compii diciotto anni, quello, fu il giorno più triste per me. Ricordo ancora la camera di mio padre, il suo studio, come lo chiamava lui, anche se studio in realtà non era, dato che vi conteneva soltanto un letto, una scrivania ed un armadio del tardo quattrocento. Ricordo il volto di mio padre che mi osservava severo, i suoi occhi fissi su di me che sembrava mi stessero leggendo l’anima. Io mi sentivo stanco quella mattina, avevo un po’ di febbre ma non lo avevo detto a nessuno, ed il mio corpo assomigliava a quello di uno zombie, come la mia camminata e le parole dal tono monotono aiutavano a far credere. Ero più pallido del solito, ed il mio fisico sembrava ancor più debilitato. Ma del resto era una vita che la mia malattia rubava anni alla mia felice solitudine. Le sue parole comunque (quelle di mio padre) arrivarono diritte al fulcro del discorso. Notai un certo velo di tristezza nel modo di pronunciarle, tono probabilmente dovuto al salto dei preamboli che aveva dovuto operare, quegli stessi preamboli
che forse gli avevano levato mezzora del suo prezioso tempo la sera prima. Mi disse, fissandomi negl’occhi, che ormai era finito il tempo della giovinezza per me, che ero un adulto, ed in quanto tale adesso potevo lasciar per sempre la casa paterna. Eravamo soli in quella stanza, eppur io riuscivo ad intravedere, nei suoi angoli e nelle sue zone oscure, i volti e i sorrisi di tutti quei miei parenti, le loro illusioni spezzate e la derisione nei loro cuori. Non feci alcuna piega. Abbassai soltanto il capo, in segno di sottomissione, e mi voltai, e senza dir una parola aprì la porta in massiccio legno pregiato dello studio. Sentì un sospiro da parte di mio padre, come se volesse dir ancora qualcosa, ma vi rinunciasse. Eppur non serviva dire altro, il mio tempo in quella prigione era finito, e adesso mi aspettava un’incarcerazione ancor peggiore nella più grande prigione del mondo reale.

Ma che tipo di malattia mi stava uccidendo poco a poco? Non era nulla di fisico in realtà, e i dottori non erano riusciti a trovar una spiegazione al debilitamento in atto sul mio corpo. Sembrava essere una sorta di maledizione invocata su di me dalla nascita, ed io detti sempre la colpa ad Edward del fatto che la mia fanciullezza era stata tanto diversa da quella di un qualsiasi altro ragazzo. Sapevo che era stata colpa sua, colpa di quella promessa impossibile da mantenere fatta a mia madre, pochi giorni prima della mia nascita. Ma ormai era troppo tardi.

La pioggia continua a battermi il volto. Mi sento bene con la pelle a contatto dell’acqua fredda. Mi muovo silenzioso in questo deserto fatto di cemento e calce, chiedendomi ancora cosa sono, smovendo l’aria con il mio canto sommesso e triste. Ero ancora troppo giovane per affrontare il mondo da solo, lo stesso mondo che per anni avevo osservato dalla finestra della mia camera. Senza nulla con me se non i pochi risparmi messi da parte, senza vestiti per cambiarmi, senza cibo, cominciai a vagare prima per la mia città, poi per il resto d’Europa. Arrivai perfino in America, ascoltai un silenzio diverso da quello che già conoscevo, un rumore simile, tante parole inutili, tante automobili che viaggiavano nella stessa direzione. Una volta fui anche arrestato, per vagabondaggio, mi dissero. Mi spogliarono e mi sistemarono nella stanza di un centro di accoglienza, studiarono accuratamente ogni cicatrice presente sulle mie braccia e sulla schiena. Io dissi che era stato Edward, che Edward ancora mi seguiva e si sarebbe arrabbiato se mi avesse trovato lì, arrabbiato con loro e poi con me. Ed, infatti, Edward arrivò, quella stessa notte. Prima massacrò tutti coloro che mi avevano portato lì, poi mi venne vicino, e mi frustò con tutta la forza che aveva. Nel corso dei miei viaggi imparai a capire cosa Edward fosse in realtà. Non era un essere umano, lui gli umani li disprezzava, quasi quanto disprezzava me. Io ero il suo gioco preferito, le nostre vite erano legate da quella promessa fatta prima che io nascessi. Ma lui arrivava solo di notte, perché la luce del sole lo infastidiva. Tra tutte le cicatrici che mi aveva procurato, una sola non si rimarginava mai. Era una cicatrice sul polso, a forma di due buchi piccolissimi, distanti due centimetri uno dall’altro. Ogni notte quelle ferite si riaprivano. Non vi perdevo sangue, ma ogni mattina mi sentivo sempre più debole. A quelle ferite Edward mi disse che non poteva rinunciare. Ovunque lui comparisse, avvenivano strani omicidi, ogni notte, e la cosa più terrificante era che
ovunque Edward appariva, c’ero anch’io lì con lui, ed osservavo a volte l’orrore che produceva.

Sono ancora qui, a vagare, a distanza di anni. Non mi sono mai fermato, ormai non dormo più e sembra strano che il mio corpo d’ottantenne continui a resistere alla mia mente ancora venticinquenne. Questa è la storia di una vita passata soffrendo, per una malattia sconosciuta della mente e per colpa di un essere, quell’Edward che ancora mi porto dietro, col suo sorriso beffardo, con il suo vestito nero, con il suo imperniabile sgualcito, quegl’occhi neri magnetici, quelle labbra che ogni tanto si colorano di rosso, le gote pallide, la voglia insaziabile di soddisfar i propri desideri perversi.

E la promessa che mi lega a lui, che non può scinder le nostre vite, la mia che sta per concludersi e la sua immortale, è una promessa di cui ancora non so nulla. Mia madre l’ha portata con se nella tomba, mio padre celata dal silenzio del suo mutismo, i mie parenti nell’assurdità della loro eterna invidia. Ed ora che il mio racconto è finito, posso lasciarmi andare in questa notte buia che il vento porterà con se, e Edward rimarrà da solo, e forse la smetterà di fare del male. Così mi accascio, tra quel silenzio che all’alba tornerà ad essere rumore.

In un cimitero, in una città di cui sarà meglio mantener nascosto il nome, vi è ancora una lapide macchiata d’umidità. Sotto di essa vi riposa un uomo, malato dalla nascita, di cui il padre ha abusato e che ha pagato con la morte la fanciullezza che i genitori gli hanno imposto. Nessuno gli fu mai capace di dir cosa in realtà lo affliggesse, una malattia della mente sconosciuta, che lo portava a disprezzar qualunque tipo di cibo e a nutrirsi del suo stesso sangue, che faceva sgorgar dal suo corpo ferendosi.

In realtà quest’uomo è stato solo un povero infelice. Niente di più. Questo era Edward Callister.


di Eric F.T. Dron