Once upon a time.

”Mi ricordo, mi ricordo.
Avevo soltanto undici anni quando vidi Matthew per la prima volta. Con quegli occhi grandi color bronzo e la pelle diafana. Sembrava afflitto da una qualche malattia, sempre, perennemente: esangue e con gli occhi malinconici, però sempre col sorriso sulle labbra. Dieci anni più grande di me, lo ricordo appena ventenne tutto tirato a lucido tra suo padre e sua madre , nel divano del mio salotto, col servizio da tè nel tavolino di vetro davanti a lui, la tazza di porcellana decorata in mano, mentre dava le spalle alla vetrata che si affacciava sulla serra interna.
Così ti ricordo, in quiete.
Io ero avvolta nel mio abito tutto pizzi e crinoline color crema, tutta atteggiandomi a gran donna in quelle sedute pomeridiane mondane, in cui restavo in silenzio con aria superiore e i miei guanti di pizzo bianco, ad ascoltare. Mia madre e la madre di Matthew sciorinavano (bisbigliando) gli ultimi eventi mondani – “Buon dio , ma hai sentito della signora Fird? Si, dopo aver tradito il marito continuamente, adesso è tutta votata a queste riunioni a casa sua. Si! In pratica, dopo la sua relazione con quello scrittorucolo da quattro soldi, si è appassionata alla filosofia (e chissà in che occasioni ne disquisivano), e adesso tutti i letterati e tutti coloro che han reputazione di uomini di pensiero si riuniscono il venerdì nel suo salotto. Lei, col candore di colomba col quale si veste ultimamente, si comporta da vera matrona. Povero signor Fird. Ma d’altronde questo è lo scotto da pagare per aver sposato un’irlandese!”-. Mio padre e suo padre parlavano d’affari in piedi dinanzi al caminetto, con il sigaro in una mano e il bicchiere di whisky nell’altra, ed io e lui eravamo in silenzio, indifferenti a quelle vili chiacchiere ed immersi nei nostri pensieri. Capì di essere innamorata di lui proprio durante uno di quei giovedì pomeriggio, quando distrattamente lasciò cadere il suo sguardo su di me, quello sguardo di fuoco che ardeva di mille sfaccettature rossastre. Restai inchiodata a quello sguardo quasi sovrannaturale col respiro mozzo, e nella mia mente affioravano pensieri e promesse che non erano mie. Era come se comunicassimo con lo sguardo. Con gli anni si instaurò tra noi una tacita complicità di sguardi, estranei ai nostri genitori e ai nostri fratelli che facevano chiasso, stavamo ore a comunicare. Ma senza dire una sola parola. Entrambi eravamo diversi da quelli che ci circondavano, ma fino a quando non mi unì a sé, non seppi mai il motivo. La nostra è una stella diversa da quella degli altri.
Il giorno dei miei diciotto anni mio padre volle organizzare festa grande, organizzò un ballo in mio onore, nella speranza di una proposta di matrimonio per quella figlia d’avorio, bella ma un pò matta e sempre taciturna. Io non mi opposi, non volli levargli quella gioia. Ardevo dal desiderio di vedere Matthew quella sera, finalmente avrei sentito quella voce di velluto soltanto per me, per la prima volta avremmo parlato. Usando le parole,s’intende, perché per tutti quegli anni, non ci fu un solo pensiero che non ci comunicammo.
Avevo un vestito di broccato rosso guarnito di pizzo bianco e al collo un semplice collarino di velluto nero con un cammeo, i capelli neri, normalmente lisci, arricciati e acconciati a puntino per l’occasione. Volevo essere splendida per lui. La sera, mentre ero all’ingresso con i miei genitori ad accogliere gli ospiti e farmi noiosamente omaggiare, vidi tutta la sua famiglia arrivare. Attesi fino all’ultimo senza fiato, ma lui non era lì. Ero con gli occhi sbarrati e le orecchie che mi fischiavano, sul punto di svenire, ma riuscì a sentire mia madre e sua madre che dicevano queste parole “Oh, quindi Matthew non è ancora tornato da Londra?” “No,, doveva tornare qui a Whitby già ieri sera, ma con un telegramma ha avvisato che a causa di un contrattempo, non se la sentiva di viaggiare di giorno, e quindi è partito oggi dopo il tramonto, arriverà a notte inoltrata”. La mia festa perse d’improvviso interesse ai miei occhi, e fortunatamente, il mio cambio d’umore fece perdere ai giovanotti l’interesse nei miei confronti. La festa finì e finalmente potei ritirarmi nella mia camera. Mi coricai ancora vestita, mi buttai sul letto obliquamente; sciolsi soltanto i capelli e mi assopì tristemente in quella posizione. La notte feci un sogno strano, era così vivido da sembrare reale; Matthew era accanto a me, sdraiato su un fianco e mi cingeva la vita cn il suo braccio sinistro, mentre mi sussurrava (Si! Mi parlava!) il suo dispiacere per non essere stato presente quella sera, e aver perso così l’occasione di dirmi quanto fossi bella. Io lo guardavo senza proferire parola, incerta. Poi lui si rabbuiò in volto, come se fosse indeciso su cosa fare. Mi guardò con uno sguardo velato di malinconia, e all’alba sparì. Mi svegliai spossata da quel sogno, e mi cambiai d’abito per scendere per la colazione. Il movimento in casa era già iniziato da un pezzo. Quella mattina ero ancora più taciturna del solito e mio padre si spazientì, ma io non riuscì ad ascoltare nessuna sillaba della sua predica: era giovedì, contavo i minuti che mi separavano da Matthew. Ma quel pomeriggio non venne, e nemmeno quello successivo e quello dopo ancora. Ma ogni notte veniva a trovarmi nei miei sogni. Mi amava, diceva. Lo amavo, dicevo. E volevamo restare insieme per sempre. Per sempre. Molte cose che mi diceva non riuscivo a capirle. Era come se avesse degli scrupoli di coscienza nei miei confronti, c’era qualcosa più forte dell’amore che ci divideva, qualcosa di oscuro. Io supplicavo che restasse con me, che mi facesse stare con lui; lui rispondeva alle mie suppliche in lacrime, baciandomi e carezzandomi, senza dir nulla, per poi sparire ad ogni alba. Una sera venne da me con un dono, un abito bellissimo di velluto nero tutto stringato, e volle che lo indossassi per lui; il pudore era fuori luogo ormai, avevo donato a lui anima e corpo anche a costo del marchio d’infamia. Indossai il vestito, era bellissimo, anche se quel contrasto mi faceva sembrare ancor più pallida di quanto non fossi di mio. Matthew mi attirò a se, ed iniziammo a danzare. Mi chiese di indossare quell’abito anche la notte successiva e di attenderlo desta, poiché sarebbe stata una notte importante per entrambi. Il giovedì pomeriggio sentì la madre di Matthew dire che suo figlio aveva deciso di andare a vivere nella vecchia tenuta di famiglia, in cima alla collina di Whitby, e che ultimamente si comportava in modo strano, stando sempre barricato in casa durante il giorno. Io continuavo a non capire cosa stesse accadendo. Perché Matthew non urlava con me il nostro amore? Perché non chiedeva la mia mano a mio padre? Perché veniva da me soltanto la notte? “Stanotte lo saprai. Da stanotte cambierà tutto”. Queste parole mi vennero in mente, ma, come sempre, non erano parole mie. Attesi la sera. Fingendo un mal di testami ritirai più pesto del solito nelle mie stanze sebbene fossi affamata, indossai il vestito nero e mi sedetti alla toeletta, aspettando. Ero persa nel corso dei miei pensieri scrutando al mia immagine allo specchio, quando sentì una presenza alle mie spalle, ma non mi voltai, perché lo specchio mi diceva che non c’era nessuno alle mie spalle. Fino a quando sentì il tocco di Matthew sulla mia spalla e mi voltai, incredula. “Devo spiegarti molte cose amore mio.” Mi fece sedere sul letto davanti al balcone aperto che mostrava uno splendido chiaro di luna, e si sedette accanto a me. Molto tempo è passato da quella fatidica notte, ma cercherò ugualmente di riportare il suo discorso per intero.     [ Vai a pagina: 2 » ]

di Susanna Sicali