Per il colpo, Veldrin sdrucciolò all'indietro. Riuscì a non cadere appoggiandosi al muro, riuscì a sollevare la spada per intercettare il nuovo fendente.
«Sei svelto, piccolo!»
Una graticola di colpi menati con più volontà che arte gli fece riguadagnare qualche metro. Cowolf continuava a sorridere beffardo: senza scomporsi inanellava una serie rapidissima di parate perfette. Giocava.
«Ragazzino, questa non è buona scherma. Ecco, vedi? Presa, presa, presa...devi sorprendere l'avversario. Ora ti mostro»
Veldrin vide l'affondo precipitare in direzione dei suoi intestini, la sua spada doveva intercettare il percorso, la portò a mezza altezza in una frazione di secondo, col polso la fece scartare di lato, contro la lama nemica... contro il vuoto. Si sbilanciò.
Dolore al braccio sinistro. Cowolf aveva deviato all'ultimo la stoccata, ferendo di taglio. Nulla di cui un vampiro dovesse preoccuparsi, benché si trattasse del ferro famoso di Balisarda, ma ancora un paio di stoccate così e si sarebbe indebolito, e poi... no, mai! Il duello durava già da tre ora, più di quanto chiunque si sarebbe aspettato da un bastardo come lui, ma non bastava, doveva vincere per riscattare l'onore della stirpe. Avrebbe potuto scegliersi un avversario meno duro, pensò, ma subito rigettò la viltà. Tuttavia, non poteva soccombere: se anche lui fosse morto, sarebbero caduti nel perpetuo oblio ignominioso.
Fermò la lama a un centimetro dal viso. Doveva concentrarsi. Colpo, parata, colpo, colpo, colpo, parata, parata, colpo, parata, colpo, parata, colpo. Non riusciva mai a penetrare la guardia del nemico, ad ogni assalto si sentiva in pericolo. Colpo, parata, colpo, parata, parata, colpo, parata, parata, parata. Col passare dei minuti, rinunciava ad attaccare per riuscire a difendersi, l'altro era sempre più incalzante.
«I vampiri sono superiori, dominano la bestia in loro, i licantropi ne sono dominati, esplode e li divora con la luna», aveva ripetuto tante volte Lord Gahrlan.
Faticosamente, Veldrin guadagnò l'uscita, arretrando: fuori, doveva essere ormai piena notte.
«Ah, degno rampollo di Strigoi!», ruggiva la voce di Cowolf nello stridore di metalli battuti, «hai mai mangiato un uomo, tu? Ti ritiri? Razza degenere! Sangue Bastardo!»
«Zitto, e affrontami, cane rognoso!»
Lui sì. Lui non aveva mai avuto nessuna misericordia per gli inferiori. Per nessun inferiore. La misericordia era il sentimento dei vili.
«Oh, il figlio del bevi-conigli alza la testa! Carne corrotta, la tua stirpe non vale la pezza per pulire la lama!»
Come Veldrin si aspettava, la luna piena era già sorta. Fortuna aveva voluto che si incontrassero in quella notte. Fortuna o destino. Qualche pelaccio nero spuntò dalle guance e dal naso di Cowolf. Con un morso, il vampiro si tagliò le vene del polso sinistro, lo schizzo del sangue macchiò il volto dell'avversario.
«Vieni, bestia!»
Non aveva mai visto una trasformazione tanto veloce. Un urlo, e il lupo, nero, enorme, gli si gettò addosso, cercando la giugulare. Come ogni fiera. Veldrin lo sapeva, schivò, fu pronto a ricevere la seconda carica, più furiosa. Questa volta lo colpì con la spada, lo gettò in terra ferito. Subito il lupo si rialzò, affondò i denti nel polpaccio. Per un istante perse mobilità.
In quell’istante la spada gli trafisse il cuore.
Gettando la testa recisa di Cowolf sul tavolo di Lord Gahrlan, coi più nobili capiclan seduti, la questione del padre fu chiusa, e Veldin poté sedersi con loro, alla sedia rimasta vuota per tanti decenni. Dal fianco gli pendeva Balisarda.

Veldrin poté cavarsi grandi soddisfazioni: al Consiglio la sua parola era ascoltata, discusse coi più nobili vampiri, e in due occasioni fu perfino sfidato in duello “al primo sangue”: incrociò le lame (e una volta vinse) con appartenenti alle preclare casate dei Dragon e dei Lamiah, che prima avrebbero forse mandato i propri servi a farlo bastonare per molto meno. Di nuovo gli Strigoi erano sul piano delle altre casate. Condivise perfino una preda umana con Aral Lamiah al banchetto solenne per il ritorno di Sarin Vurdalak dalla missione in Gran Bretagna. Ricevette molti complimenti per avere sconfitto Cowolf. Tutti si erano stupiti che un sangue bastardo fosse stato forte abbastanza da abbattere uno dei più pericolosi nemici, ed in fondo si domandavano ancora se non fosse stata una fortunosa coincidenza. Comunque, non c’era da aspettarsi che i licantropi lasciassero inulta l’uccisione: allora, sarebbe venuta la Grande Prova e ogni dubbio sarebbe stato sciolto.
«Ti sembra il momento?», gli sussurrò Aral.
«Cosa?»
«Dai, non fare lo stupido, questa è una riunione solenne. Sei appena stato introdotto al Consiglio, non fare figure»
Veldrin non capiva. Provò a rimanere immobile, si dedicò completamente ad ascoltare le parole di Lord Gaharlan, stava descrivendo gli ultimi sviluppi della guerra coi licantropi, la quale sembrava giunta ad una svolta, l’ennesima, ma aveva la sensazione che nulla sarebbe davvero cambiato. Con gravità, mentre parlava il Gran Maestro volgeva attorno lo sguardo: quando giunse negli occhi di Veldrin, bloccò per un momento fiato e moto, si produsse in una breve smorfia, continuò.
«Ecco, ti ha visto. Dai smettila!»
Stava per domandare cosa, intravide le proprie mani: erano coperte di peluria. Strano, non aveva inteso trasformarsi in lupo, sarebbe stata una mancanza di rispetto al Consiglio. Volle eliminarli, la pelle tornò liscia.

Si alzò non appena il sole fu tramontato: la notte prima la riunione si era protratta così a lungo da non dargli il tempo di andare a caccia, e gli invitati erano tanti che i servi umani non avevano potuto fornire sangue a sufficienza. Indossò abiti borghesi, si addentrò per le vie della città, in cerca di una vittima adatta. Qualcuno con molto sangue, che non morisse per avergliene sottratto un poco. Bisognava essere attenti a non farsi scoprire, a quell’ora era difficile, la gente ancora rincasava dal lavoro, le strade erano dense di persone. Il cacciatore scelse i vicoli.
Meno folla, era lecito sperare in un’occasione. Scivolava silenzioso, confondendosi fra le ombre spesse delle vie poco illuminate, osservava. Anche il tempo procedeva, e la sete.
Un tizio era buttato nell’androne di un negozio sprangato con la rigida saracinesca di ferro, teneva in mano una bottiglia di birra, non sembrava molto in grado di tenersi in piedi. I vestiti erano sporchi, la carnagione scura, probabilmente si trattava di un clandestino. I migliori. Tutto il gregge umano era stato creato per sfamare i superiori, ma i derelitti erano il cibo più facile e quotidiano.
«Bene, mi farò un cicchettino alcolico», pensò Veldrin, sorridendo fra sé «come dicono gli umani, la notte è fredda»
Si acquattò dietro allo stipite di un portone, rimase in osservazione alcuni minuti, doveva studiare al meglio la situazione se non voleva commettere errori, i quali, oltre a potergli causare problemi sul momento, non sarebbero stati ben visti dal Consiglio. In cielo, fra i palazzi, la luna era di nuovo piena: era passato soltanto un mese dal suo trionfo. Lasciò sfilare un paio di passanti, poi finalmente la viuzza si fece quieta. Si avvicinò alla vittima, si sedette vicino a lei.
«Buon uomo, come si sente»
«Beee-nissimo!»
«Via, non può rimanere qui, la notte è gelida, venga a bere qualcosa con me, in qualche posto»
Gli infilò il braccio sotto l’ascella, lo tirò su, sentì quanto l’ubriacone era malfermo sulle gambe: doveva sorreggerlo quasi di peso. L’indomani non si sarebbe chiesto il perché di quella debolezza.
«Offri tu?»
«Tranquillo, a te offro io»
Nessuno attorno: con la mano libera, colpì forte il malcapitato sulla nuca, rapido aprì il tombino, gettò dentro il corpo stordito. Lui stesso ebbe qualche difficoltà a calarsi dalla stretta scaletta. Strano. Forse era la fame. Doveva stare attento a controllarsi, o avrebbe ucciso. Finalmente, era a tu per tu con il suo pasto. Aprì il colletto del piumotto, sciolse la camicia (non gli piaceva il gusto del tessuto), morse il collo. Solo pochi sorsi, alla peggio poi avrebbe cercato un’altra preda. Perché? Il gusto e la consistenza del sangue lo stuzzicavano, e a chi poteva importare di uno sporco marocchino? Bevve fino quando l’arteria fu vuota, si ritirò appagato. Ah, da quanto non si faceva una scorpacciata del genere!
Ancora! Nelle vene ne doveva essere rimasto ancora. Strappò i vestiti dal corpo, con le mani unghiute, con i denti cominciò strappare le carni, le leccava, ne prendeva i brandelli, li alzava sopra la bocca, li strizzava per spremerne il succo. Buono. Poi gettò direttamente le fauci nel ventre aperto dell’uomo, lo lacerò più e più volte, a morsi, e stritolando coi denti assaporava le poche gocce rimaste, sputava. Quando la carcassa fu dilaniata, quando dell’uomo rimase poco più delle ossa, Veldrin faticava a muoversi, si sentiva gonfio di nutrimento. Si stupì di se stesso: un vampiro del suo lignaggio, abbandonarsi agli impulsi bestiali come, come…no, aveva avuto troppa fame, ecco tutto.
Si tirò indietro a quattro zampe. Le vide. Passò la lingua sulle labbra, ed erano allungate: labbra di lupo. Non se ne era reso conto. No, no, non era possibile, solo gli uomini potevano essere contagiati dalla malattia, il sangue dei vampiri era troppo nobile, troppo puro per temere quell’abiezione. Ora avrebbe ripreso la sua forma umana, e tutto sarebbe passato. Si pensò eretto, pensò alle mani, pensò alla pelle glabra, pensò al volto piatto. Sollevò le zampe anteriori, ricadde. Si rotolò per terra, per il dolore, un dolore che veniva dall’intimo della sua carne, come una lama che operasse in ogni organo, in ogni fibra, fino al fior della pelle, dove i peli pungevano come spilli.
A vederlo, era un’orribile commistione, membra di lupo si cambiavano in membra umane, membra umane in membra di lupo. Con le mani cercava di aggrapparsi a ripiani del muro, le zampe scivolavano via; la coda guizzava dentro e fuori, oscenamente; gambe di uomo si piegavano all’indietro e non reggevano il peso; ululati si mescolavano ad urla.
Infine, il vampiro vinse. Veldrin, estenuato, contemplò il proprio corpo. Era tutto sporco di sangue per il pasto sconciamente consumato, il volto bagnato, il petto, le braccia, le mani rosse. I vestiti erano altrettanto lordi, e per di più stracciati. Ma era di forma umana, e questo, soltanto questo contava. Avrebbe dovuto introdursi in qualche casa, darsi almeno una lavata, rubare degli abiti, andando in giro così avrebbe dato troppo nell’occhio, magari sarebbe stato perfino fermato dalla polizia, e allora avrebbe dovuto ucciderli. Non lo voleva, il Consiglio lo avrebbe punito. Sarebbe stato molto più semplice assumere forma animale, di pipistrello o di…beh, in altri momenti l’avrebbe fatto, ora ne aveva paura.
Rimase seduto in terra per qualche tempo, poi si decise a muoversi. Spinse il cadavere, o quel che ne restava, nella fogna, e si risolse ad affrontare la traversata fino a casa: forse, la notte successiva avrebbe domandato consiglio ad Aral, oramai si poteva fidare, ma adesso aveva proprio bisogno di riposarsi un poco.
Fuori il buio era più nero di quando era entrato, spesse nubi avevano coperto il cielo: meglio così, pensò Veldrin, notare le sue condizioni sarebbe stato più difficile. Nessuno attorno, dovevano essere almeno le tre di notte. Ricordava, c’era un appartamento, non lontano, dove una volta era stato invitato. Si arrampicò al muro del palazzo, raggiunse il secondo piano, salì sul balcone, si insinuò sotto la porta finestra, si rimaterializzò nella stanza da letto. Nel silenzio, aprì un armadio, ne estrasse un completo da uomo, poi passò in bagno, si lavò le mani e il volto con un filo d’acqua, se ne andò.
Il tutto non gli aveva rubato più di cinque minuti, si affrettò subito verso la propria dimora, si sentiva inquieto a rimanere fuori. La notte si fece più illuminata: la luna piena aveva trovato uno squarcio nella coltre di nubi da cui sbirciare il mondo. Veldrin la guardò preoccupato, corse più veloce, già sentiva qualcosa crescere dentro di sé, e non riusciva a controllarlo. No, no, non poteva cedere ora, non poteva essere bestia. Si rintanò nell’ombra del suo rifugio, da dove non vedeva la luna, crollò a sedere con la schiena davanti alla porta. Per un attimo, gli parve di sentirsi meglio, ma subito si accorse di percepirla ancora lì, grande, possente, argentata, magnetica. Non poté astenersi dal tornare a contemplarla. Non faceva differenza, comunque.
Si portò la mano sinistra davanti agli occhi: pelosa. Orribili peli neri di lupo crescevano sul dorso, sulle dita, sul palmo, le unghie si facevano più sottili, le articolazioni rigide. Stringendosi il polso con la destra, piegato, concentrò tutta la propria volontà sul versante umano dell’io. Focalizzava la bella mano umana, il miracolo di ossa, tendini, muscoli prensili, mobilissimi, meravigliosi sopra quella orribile, inutile zampa. Riuscì a muovere l’indice, il pollice, forse stava vincendo.
La luna si rivelò del tutto. No, non proprio adesso! La parte bestiale ritornò forte, più forte, la mano precipitava verso la zampa. Veldrin staccò la destra dal polso, corse dentro, urlando impugnò Balisarda, l’alzò e la calò con il massimo vigore. Ecco, l’oscena propaggine traditrice era recisa di netto. Ululò la propria gioia.
Ululò? Stava ululando! Radici troppo profonde aveva il cancro! Fin nel petto, fin dentro il petto: pareva di sentire una fiera correre selvaggia dentro le vene, dentro le carni, dentro gli organi più intimi, rodere le ossa, mordere il fegato, i polmoni, lo stomaco. Come un acrobata giocava fra le corde vocali, le graffiava, le soffocava della sua presenza. Il collo sembrava gonfiarsi, come sul punto di esplodere nel dolore represso. Veldrin aveva perso ogni controllo, riusciva appena a rallentare il decadimento delle sue membra verso la corruzione bestiale.
«Nooo», gridò la voce umana già rotta e arrocata «il nome degli Strigoi non avrà mai macchia!».
Lasciò cadere la spada, raccolse le dita della mano rimasta, le chiuse a formare con gli artigli acuminati una spina feroce di cinque punte, la spinse nel petto. Sentì la pelle lacerarsi, le grinfie penetrare fra costola e costola, spezzarne una, due tre. Sentì una sacca viscida e tumida pulsare, sentì le dita stringersi attorno ad essa. Strappò con tutta la propria violenza.


autrice                                    
Serena Merlante