Siviglia 1857

A quell’ora della notte, la cattedrale era deserta. Nessun fedele, solo l’acre profumo dell’incenso bruciato durante l’ultima funzione religiosa della sera, profumo che impregnava ogni guglia, pietra, statua o lignea struttura dell’imponente costruzione. All’interno una tenue luce donava alla cattedrale un aspetto sinistro. Ombre tremolanti erano prodotte dai tenui barbagli di centinaia di candele che ardevano, silenziose, sopra a sfarzosi candelabri d’ottone.
D’improvviso un ritmico eco di passi interruppe quel silenzio…
Don Vicente de Araval era l’ultimo di un’antica stirpe. Alla sua morte le millenarie dinastie di vampiri di Spagna si sarebbero estinte. De Araval, un uomo esile e raffinato, dal volto aquilino sul quale i radi peli di un accenno di pizzo gli imbrattavano le delicate fattezze da gentiluomo, si tolse la tuba ed iniziò ad osservare le alte e maestose volte della navata centrale. L’istinto di vampiro lo avvertiva che non era il solo visitatore notturno: il suo avversario era già arrivato e con ogni probabilità era lassù, nascosto tra le guglie. Don Vicente riprese il lento cammino in direzione del sontuoso altare centrale. L’ultimo vampiro di Spagna era pronto ad affrontare il suo inevitabile destino…
Padre Juan Hector, il mannaro, scrutava l’avversario dall’alto di una guglia posta sui lati dell'ampia volta centrale. La dolorosa mutazione in bestia di un servile uomo di fede, era a buon punto. Pochi istanti ancora e miliardi di cellule turbolenti sarebbero state pronte ad affrontare il truce combattimento. I ricordi di essere umano, di uomo religioso devoto a Dio, stavano svanendo. I soli ricordi che avevano osato attardarsi nella sua mente, erano inghiottiti in un vortice oscuro di incubi che popolavano l’arida mente di una bestia affamata di morte. Padre Hector era l’ultimo della sua specie, ultimo licantropo di Spagna. Lo scontro finale con il vampiro, creature immonde e luridi succhia ratti, così i mannari chiamavano i figli della notte, era giunto al capitolo finale.
«Ti avevo detto allo scoccare della mezzanotte, ma questa è trascorsa da mezzora e tu, lurido succhiatore di ratti, sei in ritardo!», ruggì dall’alto una voce animalesca.
«Che importanza può avere il tempo…e chi meglio del sottoscritto può affermarlo…», sibilò Vicente de Araval gettando a terra tuba e mantello, mentre i suoi occhi mutavano in pallide biglie prive di vita.«Padre Hector, dal suono della tua voce direi che la trasformazione procede a rilento…in essa odo ancora fastidiose risonanze umane…».
Hector si mosse veloce lungo i cornicioni esterni della navata. Il mannaro era abile nell’arte di sottrarsi agli sguardi delle sue prede, ma l’udito fenomenale del vampiro poteva tranquillamente intercettare ogni suo movimento.
«In verità non pensavo che accettassi lo scontro nella casa del Signore…», sibilò il mannaro.
«Voi mannari non volete proprio capire, vero? Un vampiro, creatura cui non manca certo il…buon gusto, trova alquanto affascinante la raffinatezza con la quale i servi di Dio arredano i propri templi: velluti di pregiate qualità, raffinate lavorazioni del legno e perché no uno sfarzo aureo che personalmente ritengo essere una nota stonata alle utopistiche idee che coltivate che se non ricordo male abbracciano gli ideali di povertà, carità…bla…bla…bla…», Gli rispose il vampiro non facendo nulla per nascondere quel voluto sarcasmo.
Dall’alto il mannaro iniziò ad annusare l’aria. Il suo olfatto era in grado di identificare con precisione assoluta ogni singola particella odorosa presente nell’ambiente: Hector doveva essere sicuro della posizione del suo acerrimo nemico.
«Taci, succhia ratti! La vostra natura v’impedisce di elargire opinioni che riguardano il Dio degli uomini!», gli strillò contro Hector.
«Ti sbagli Mannaro. Agli occhi del tuo Dio noi due c’equipariamo. Un nemico giurato della croce, quale io sono, non si distanzia un granché da un suo servo fedele che si trasforma in bestia orripilante ad ogni mutar di luna!».
«Quello che sono non è affar tuo! La maledizione che mi affligge non è altro che una suprema prova di fede, un sacrificio che devo sopportare al fine di conquistare la gloria dei cieli!», ringhiò padre Hector movendosi veloce sopra alle alte strutture di pietra.
«Mi dispiace doverti contraddire…», replicò il vampiro, «ma credi davvero che il Dio degli uomini sia disposto ad accettare la tua malefica natura? Dimmi Hector quante volte hai pregato il tuo Dio combattendo strenuamente la bestia che ti cresceva dentro e quante volte hai provato il desiderio di farla uscire, di donare libertà a quella creatura in grado elevarsi al pari del tuo stesso Dio? Dopotutto non ci fu dato il dono Divino di infliggere la vita o la morte?! No mannaro! Non siamo divinità e mai ci sarà gloria eterna che potrà redimere ciò che noi siamo: oscure e dannate presenze costrette a combattere un’ultima volta per sopravvivere! Tu hai cercato, nella fede, di fuggire alla nostra inevitabile natura… ma non c’è alcuna fede che la possa cancellare. Accetta quello che sei Mannaro. Solo così questa notte morirai in pace!» concluse De Araval puntando i piedi sulle fredde lastre marmoree della pavimentazione «E così sia…», una voce profonda sibilò dall'alto.
«Allora che la questione abbia inizio!», dichiarò il vampiro la cui voce adesso si era tramutata in un livido suono di morte.
Il mannaro piombò dall’alto con la grazia di un falco. Araval riuscì a schivarlo producendosi in un’aggraziata piroetta, movenza che gli permise di sottrarsi ai suoi artigli affilati.
«Devo dire, succhiaratti, che nonostante l'età sei incredibilmente veloce…». Adesso il mannaro stava sbavando copiosamente. La bestia sembrava in preda ad un’euforia omicida.
«Cinquecento anni trascorsi tra gli umani, esseri del tutto privi di attrattive, mi hanno permesso di concentrarmi maggiormente su me stesso…lo stesso non si può certo dire di te, ammasso flatulento di peli!», lo schernì di rimando Araval, poco prima di rispondere all'attacco di Hector. Con la velocità di un battito di ciglia il vampiro si lanciò in volo contro Hector. Il mannaro rimase sorpreso dalle saettanti movenze di Araval. Hector cadde a terra, sottomesso al vampiro. Araval, sopra di lui, avvertiva il pulsare delle sue vene: ruggenti torrenti di puro nutrimento celati da uno spesso strato di argentea peluria.
«Devo ammettere, nonostante quelli della tua specie mi diano ribrezzo, che voi mannari possedete un sangue di prima qualità!», sibilò Araval pronto a dissanguare l’avversario. Il mannaro, ricorrendo alla sua forza brutale, si liberò del vampiro infierendogli una possente artigliata sul volto. Araval fu scaraventato a diversi metri di distanza andando a schiantarsi contro uno stupendo crocifisso. Il vampiro si voltò verso l’icona religiosa e vi sputò sopra.
«Se ti ritieni così grande, uomo inchiodato sulla croce, perché mi hai creato…» ringhiò il vampiro, sul cui volto, le profonde ferite inferte dal mannaro stavano miracolosamente scomparendo. In quello stesso istante Hector scattò sulle quattro zampe lanciandosi nuovamente sul vampiro. Don De Araval cercando di sottrarsi al bestiale attacco si profuse in una delle molteplici stregonerie vampiresche levitando a mezz’aria. Hector, distratto da quella prodigiosa mossa, mancò clamorosamente il vampiro andandosi a schiantare contro l’altare del coro e riducendo in centinaia di taglienti schegge di legno l’intera struttura.
«Oh, oh!», ridacchiò Araval «voi mannari siete creature dotate di un’ignoranza inarrivabile. Stupidi animali tutto istinto e rabbia. Ancora oggi mi chiedo come abbia fatto la mia stirpe, dall’alto della sua magnificenza, a ridursi in quest’ultimo scontro!».
Il mannaro era furioso. Saettando sulle fredde pareti della cattedrale Hector si profuse in un balzo spettacolare riuscendo ad afferrare Araval. Il vampiro non poteva aspettarsi una mossa del genere. Araval precipitò a terra e tanta fu la sorpresa nel ritrovarsi improvvisamente nelle terribili spire del mannaro.
«Ora, succhia ratti, credo proprio che ti ucciderò!», ruggì Hector accarezzando il volto del vampiro con i suoi artigli letali.
«Uccidermi sarà inutile…», gli rispose De Araval conscio di essere ad un solo passo con la morte, «dopo di me altri ne verranno e solo il tempo ci renderà partecipi della vittoria finale! Noi, figli della notte, siamo fieri di ciò che siamo e sarà il nostro orgoglio a causare l’inevitabile scomparsa di voi luridi servi della luna !».
«Forse andrà proprio così, mio triste vampiro, ma come hai detto tu stesso… che importanza può avere il tempo…» concluse Hector decapitando, con un solo colpo d’artiglio, l’esangue avversario.
Don Vicente De Araval, ultimo vampiro di Spagna, spirò senza riuscire ad emettere un solo sibilo…
Hector aveva vinto. La sua stirpe aveva vinto. In preda all’euforia il mannaro rivolse l’enorme muso verso l’alto ed incrociando un fascio candido di luce lunare che filtrava attraverso delicate vetrate policrome iniziò ad ululare, ma quel grido di vittoria era destinato ad arrestarsi in gola.
D’improvviso dal fondo della navata comparvero due figure umane. Si trattava di un uomo adulto in compagnia di un giovane ragazzo. Entrambi indossavano lunghi pastrani di nera pelle sdrucita e sul capo calzavano cappelli a tesa larga. L’uomo imbracciava uno strano fucile. L’arma emetteva continui sbuffi di vapore. L’uomo puntò il fucile in direzione del mannaro inquadrandolo nel telescopio di puntamento. Poi fece fuoco. La pallottola d’argento saettò attraverso la navata centrale brillando nell’oscurità come una stella cadente. Il proiettile concluse la sua argentea traiettoria andandosi a conficcare nel nerboruto petto di Hector. Il mannaro emise un urlo assordante, ansimò, travolse le panche di preghiera, alcuni candelabri e poi, crollò a terra in un assordante frastuono. La morte lo colse all’istante ridonando a quel corpo la sua naturale forma umana.
«Gran bel colpo padre!», disse il giovane ragazzo dando una pacca affettuosa sulle spalle dell’uomo.
«Questa volta siamo stati fortunati, Abraham. Metà del lavoro era già stato fatto, ma in futuro non sarà sempre così. Quei due erano demoni ormai stanchi. L'aver raggiunto la consapevolezza della loro natura demoniaca li ha privati del fuoco omicida che li aveva contraddistinti in passato. Ricorda, ragazzo mio che nel mondo esistono intere legioni di vampiri e mannari pronti a muovere guerra contro gli esseri umani. Noi, Van Helsing, siamo una stirpe d’eletti, abili cacciatori e guardiani del sacro ordine delle cose e per compiere appieno la missione che c’è stata affidata dovremo sempre rispettare le sole due cose che ci accompagnano nel nostro oscuro viaggio: il sangue immondo di un vampiro e l’argento scintillante di questa…», rispose Azechiel Van Helsing porgendo nelle mani del figlio una lucente pallottola argentata.
Infine l’uomo e il ragazzo si allontanarono dalla cattedrale, scomparendo nell’oscurità di una calda notte Andalusa.


autore                                    
Simone Conti