Una follia! Era stata una vera follia permettere ad Umberto di leggere i miei racconti. Chi avrebbe immaginato quale brutta piega avrebbe preso la mia vita a seguito di una tale piccola imprudenza.
"Sono molto interessanti... carini davvero, forse ci sarebbe da limare qualcosa, forse da sviluppare alcune parti, cassarne altre.
Sono però interessanti davvero."
Cominciarono così i suoi infiniti ritorni: ogni pomeriggio alle sei, invariabilmente puntuale, appariva sulla porta della mia stanza, abbozzava un saluto - mai una cordiale stretta di mani - e iniziava a cianciare, cianciare. Dopo di che scendeva in salotto a salutare Margherita.
Margherita... e Umberto... e loro sempre più sorridenti: "Belli, molto carini. Si potrebbe pensare davvero di pubblicarli." "Dici sul serio? Finalmente qualcuno che riesce a comprenderne il valore; certo non sono i Promessi Sposi..."
"Anch'io sto scrivendo una cosuccia, un piccolo romanzo ma senza pretese: una specie di rievocazione storica. Fonti attendibili, ecco quello che mi manca. E' solo a ragione di ciò che procede a rilento, però.. forse... A proposito, domani sera c'è un film molto interessante, questo sì un vero capolavoro: da non perdere..."
Tutto cominciò a girare troppo velocemente attorno alla mia testa, sino ad allora persa in mille fantasie ed adesso costretta a forza a osservare con riluttanza l'evidenza di una nuova storia, tragica o bellissima - dipende dai punti di vista. Comunque una storia purtroppo molto reale, e in quella storia non vedevo per me posto alcuno.
La notte iniziai ad avere sonni agitati e spiacevoli incubi. Fortunatamente terminavano tutti prima del risveglio lasciandomi la dolce sensazione di una calda rugiada che, nascendomi dentro, lentamente scivolava poi sul mio corpo, riscaldandolo tutto.
La sera, dopo che Umberto era uscito, riguardavo i manoscritti che lui, sempre molto puntualmente, mi aveva restituito infarcendoli con sagaci commenti e lusinghieri elogi. Mi apparivano invariabilmente unticci e un poco scostanti, quasi non mi appartenessero più'. Talvolta mi ritrovavo a sospettare che Umberto si appropriasse di parte dei miei scritti. Certo, se così fosse stato, aveva il suo daffare visto quanto era sempre spedito nella riconsegna, precisione ancor più ammirevole se oltre che leggere avesse dovuto - come io temevo - anche scegliere e ricopiare furtivamente.
Circa i suoi scritti non potrei dire; non ero mai riuscito ad ottenere da lui un solo rigo. Mi era parso di intravedere qualche foglio vergato con minuscola calligrafia, udire qualche frammento di racconto mentre, seduto sul divano del salotto, chiacchierava con Margherita. Inizialmente, occupato a scrivere e a fantasticare, non ci avevo molto badato.
In seguito cercai appositamente di creare le condizioni tali da consentire a lui di esporli a Margherita e a me di carpirli.
Non riuscii mai nel mio intento e decisi quindi che sarebbe stato più proficuo dedicarmi alla scrittura piuttosto che tentare di estorcere ad altri ciò che forse era stato a me sottratto.
Fu quella una saggia decisione? In seguito me lo chiesi spesso e non ebbi mai risposta da darmi.
D'altronde, constatata l'evidenza che non mi riusciva di vivere e scrivere contemporaneamente, decisi di ignorare quel pensiero maligno e dedicarmi all'una e all'altra cosa separatamente: ma ciò non è poi così facile come a dirsi e iniziai ad attraversare quella che, a detta di tutti, appariva come una crisi depressiva. Io non ebbi modo di attribuirle un'etichetta: soffrivo molto, stavo male e ciò mi bastava.
Margherita sembrava sempre più visibilmente preoccupata per la mia salute ma io intuivo, o meglio temevo con rancore, che ciò fosse dovuto più che altro alla perturbazione che tali miei comportamenti avrebbero causato alle sue ormai assidue frequentazioni con Umberto.
Inutile dilungarsi adesso in troppi dettagli. Il fatto avvenne mentre cercavo per l'ennesima volta di scoprire la verità circa le temute ed indebite appropriazioni di frammenti dei miei scritti: speravo infatti che Umberto si limitasse solo a quello.
Dopo una lunga e noiosa discussione su il mio ultimo racconto l'avevo salutato ed ero rientrato nella mia stanza fingendo di accingermi ad apportare alcune delle correzioni - a dir vero scarse ed irrilevanti - che mi aveva appena proposto.
Sapevo che, come al solito, Umberto si sarebbe soffermato giù in salotto; Margherita gli avrebbe offerto un tè, avrebbero chiacchierato e forse, almeno lo speravo, lui avrebbe aperto una mazzetta di fogli sgualciti e le avrebbe letto qualcosa. E io volevo sentire quel qualcosa a me troppo a lungo negato.
Evidentemente però la lunga separazione tra il vivere e lo scrivere - da troppo tempo ormai l'ago pendeva decisamente verso la seconda - mi aveva giocato un brutto scherzo.
In ben altro si erano nel frattempo trasformati i loro cicalecci: gli atteggiamenti in cui li colsi non lasciarono dubbi sul fatto che i ragionamenti letterari fossero oramai acqua passata.
In silenzio rientrai nella mia stanza. Steso sul letto, attonito, osservai il soffitto per diversi minuti, incerto su quale strada prendere e, mentre oscillavo tra la realtà e la fantasia, un bolide rombante mi stese come una gallina sull'asfalto.
In quella indefinibile dimensione che si estende per pochi millimetri tra la vita ed il sogno caddi di taglio, come una moneta tra le strette fessure di un tombino. E sotto era veramente fogna, un'enorme fogna.
Tese come esili corde tra le oscure pareti, mi apparvero - nel buio che lentamente si diradava - diverse strade che scavalcavano l'odioso fetore che ribolliva nel fondo. Non so bene con quale criterio, ne scelsi una e la imboccai correndo: la rabbia che provavo era troppo cocente per poter essere spenta dal loro sangue. Erano le loro anime che volevo ferire, solo questo avrebbe potuto lenire il mio dolore: il loro annientamento totale.
Il mio corpo fu ritrovato quella sera stessa; un urlo della domestica e subito l'accorrere di Margherita, il suo strazio, il suo dolore, le sue domande senza risposta. Dietro di lei, Umberto fissava come stupito l'oscillare della corda a cui, in un gesto di infinita superbia, avevo appeso la mia vita. Nessuno dei due forse capì che a quella stessa fune erano anch'essi legati.
Del poco che volli conservare in ricordo di quei momenti di travaglio, esistono due istantanee che talvolta, quando sono un poco triste - capita oramai molto raramente - mi fa piacere rivivere.
Umberto, il mio maestro, che si avvia verso la scuola: non sa cosa dire, non sa cosa pensare. Davanti agli occhi vede ancora quel corpo oscillare lievemente e gli bruciano in tasca quei fogli sgualciti. Spero non li getti e riesca un giorno a cavarci finalmente un buon romanzo.
Margherita, la mamma, che si getta piangendo tra le braccia di mio padre. Non lo ricordavo così giovane, forte e deciso: me ne ero fatto un'immagine sbagliata.
"Adesso è finalmente tornata con te: abbine cura, papà!"

di Alessio Robotti