La fama di Carmine Panzeca era diffusa per tutto il quartiere; lo chiamavano "don Carminiello Carrozza". Non c'era vecchio, bambino né fanciulla che non lo conoscesse. Sempre elegante, passava per i vicoli del rione salutando a destra e a sinistra, fermandosi a parlare davanti ad ogni porta, guardando in alto verso la stretta striscia di cielo che si scorgeva dal fondo del vicolo e strillando una "buona giornata" alle donne corpulente che stendevano la biancheria affacciate dalle ringhiere e chinando il capo, in segno di ammirazione, alle avvenenti signore che si aggiustavano i capelli accanto alle finestre aperte, indossando vestaglie di flanella che lasciavano intravedere maliziosamente i busti di pizzo che avrebbero dovuto celare. Ma don Carminiello trovava parole e cenni di rispetto anche per i loro uomini, brancolanti in canottiera sui balconi, ancora pieni di sonno e con la barba da rasare. Salutava la gente che incontrava per strada, multiforme e spontanea, si fermava alle bancarelle che trovava lungo le stradine, comprava un "coppo" di semi di zucca abbrustoliti o quattro limoni di Amalfi e restava a conversare con il venditore. Così veniva a conoscenza della "voce del vicolo", l'organo "ufficiale" d'informazione dell'intero rione, attraverso il quale circolavano le lagnanze, i pettegolezzi, le verità e le maldicenze, i racconti dei litigi e delle rappacificazioni familiari. Non di rado da quelle confidenze emergevano anche storie di "corna", del loro spuntare e del loro ramificarsi, ma queste notizie lasciavano don Carminiello alquanto indifferente: ne veniva a conoscenza con gusto però disinteressatamente, senza passione.
    Quello che a lui interessava veramente erano i decessi che avevano luogo nelle abitazioni che si affacciavano sul vicolo o sulle stradine adiacenti. Quando gli veniva raccontato del lutto che aveva colpito qualche famiglia, diventava serio e pensieroso, si rattristava mostrando profonda partecipazione umana per il dolore delle persone di cui si era discorso e cercava ragguagli, sul perché e sul percome delle funeste vicende. L'appellativo di "don Carminiello Carrozza" gli era stato appioppato perché non c'era un funerale al quale egli non prendesse parte: la sua presenza ai cortei funebri era diventata consueta come quella della stessa carrozza da morto, tant'è che quando veniva visto passare per il vicolo, qualcuno incominciava anche a fare gli scongiuri. Quando c'era una disgrazia era sempre lì, in prima fila, impeccabile nell'abito e nel contegno, ad esibire senza pretese la propria partecipazione al dolore della famiglia colpita dalla disgrazia. Sui registri delle presenze delle camere ardenti vi si trovava immancabilmente la sua firma: "Carmine Panzeca", scritto con una calligrafia inclinata verso destra, "corsiva" si sarebbe detto una volta. Ogni famiglia che aveva vissuto la tragica esperienza di una dipartita, aveva sempre trovato in lui un amico fraterno. Anche se prima dell'evento luttuoso i parenti del defunto lo avevano conosciuto solo di vista, don Carminiello si presentava lo stesso nella camera ardente, esprimeva il proprio cordoglio per la sciagura e restava lì, a compiangere il morto. Assisteva ai riti della veglia e del funerale e dopo la tumulazione salutava i congiunti del defunto, prometteva di andare a fare loro una visita dopo qualche giorno e si accomiatava.

    All'inizio della settimana successiva, don Carminiello adempiva la sua promessa: andava a casa dei familiari dell'estinto e vi si intratteneva a lungo. Si informava sulle cause e sulle modalità del decesso, chiedeva l'età del defunto, chiedeva delucidazioni sulle circostanze della malattia o dell'incidente fatale e mostrava di addolorarsi, di condividere la loro pena e la loro desolazione. Quando aveva acquisito sufficienti informazioni, trovava parole di conforto e di rassegnazione per tutti. Parlava della pace che regnava nell'altra vita, quella vera, e della sua bellezza. Parlava della morte come un evento inevitabile e comunque necessario per permettere il trapasso, la trasformazione da esseri materiali e corruttibili in esseri spirituali e perciò perfetti. Diceva che i defunti osservavano i vivi e continuavano ad amarli e che perciò, per non suscitare la loro pena, era d'uopo mostrarsi ed essere rasserenati; bisognava tramutare il dolore in rassegnazione.
    Tutti lo ascoltavano, sospirando, asciugandosi le lacrime e tenendo gli occhi bassi e le mani giunte in grembo ed ognuno affidava il proprio cuore sfibrato, il proprio spirito desolato alle sue parole, in grado di ridare serenità, mostrare il carattere ineluttabile della fine di ogni esistenza e riportare i sentimenti umani all'accettazione rassegnata della realtà: in fondo, anche la morte ed il dolore erano eventi del mondo caduco, dell'esistenza terrena.
    Nessuno sapeva precisamente ciò che spingeva don Carminiello Carrozza a prestare la sua opera di assistenza spirituale alle famiglie colpite dalle sventure. Perché era così pronto a rasserenare i cuori addolorati e da cosa nasceva il suo interesse smisurato, quasi morboso, per le circostanze in cui si erano verificati quei tragici eventi?
    «Lo fa per le anime del Purgatorio!», diceva qualcuno.
    «Che con la sua buona opera possa rinfrescarsi le anime dei suoi morti!», auspicava qualche vecchietta.
    Tutti lo consideravano una persona di famiglia e quasi si attendevano, speranzosi, la sua presenza ad ogni funerale: nel vicolo egli era diventato una specie di istituzione.

    Quando la visita nella casa dei congiunti dell'estinto giungeva al termine, si accomiatava dai presenti e se ne andava. Si incamminava lungo il vicolo, pensieroso, salutando appena la gente che incontrava per strada. Raggiungeva via Caracciolo, l'attraversava e si fermava dall'altra parte, con la fronte rivolta verso il mare. Lì osservava le onde che si infrangevano sulle rocce scure ed ascoltava il loro sciabordìo frammisto alle voci ed ai rumori della strada. Poi volgeva lo sguardo verso un punto imprecisato dell'immensa distesa d'acqua e restava così, immobile, a riflettere a lungo. Riportava alla memoria i particolari di cui era venuto a conoscenza, ricostruiva l'accaduto e cercava di isolarne gli elementi peculiari e caratterizzanti. Quando aveva analizzato per bene l'intera vicenda, quando si era deciso per scelte immutabili, allora si risolveva all'azione. Si voltava, con in viso un'espressione seria ed assorta, riattraversava via Caracciolo ed entrava nel banco lotto dove poteva, finalmente, trasformare in numeri o in loro combinazioni, i fatti di cui era venuto a conoscenza e le predizioni che aveva tratto dalle vicende luttuose che gli erano state narrate.
    Aveva una vera inclinazione naturale al gioco del lotto: con le sue puntate riusciva a racimolare delle discrete vincite rifacendosi così, a suo modo, dell'impegno sociale che profondeva lungo tutto il vicolo e le stradine del rione. Riusciva, con questo metodo cinico ma fruttuoso, a concretizzare ciò che agli altri restava precluso per la loro incapacità di analizzare gli eventi e di trarne delle combinazioni di numeri. Ma questo la gente del vicolo non lo sapeva: don Carminiello Carrozza continuava ad essere il consolatore delle famiglie in pena e quello che faceva per il vicolo, di cui tutti gli rendevano merito, si era convinti lo facesse per puro spirito umanitario, come si dice: per "filantropia". Il resto non c'entra: è un'altra storia.


di Plaisir