Le macchine emersero
dalle ceneri dell’incendio nucleare.
La loro battaglia per sterminare il genere
umano aveva infuriato per anni ed anni
ma la battaglia finale
non si sarebbe combattuta nel futuro.
Sarebbe stata combattuta qui.
Nel nostro presente.
OGGI
      Terminator


Il cyborg continuava ad inseguirci. Non si fermava, non sembrava proprio volersi arrestare.
Fuori le sirene sfrecciavano veloci, il fuoco bruciava gli ultimi palazzi rimasti in piedi. L’Associazione non lasciava scampo per nessuno, aveva messo tutto a ferro e fuoco. La città. Forse tutto il mondo.
Erano pazzi, quelli dell’Associazione, pazzi che stavano distruggendo tutto, con i loro dannati carri.
Lo scenario fuori era apocalittico, le case bruciavano, le mitragliatrici sparavano a raffica...ma nessun grido proveniva dalle strade. Forse tutti morti o nascosti chissà dove, come noi.
Io e mia madre c’eravamo barricati in casa, avevamo stangato la porta e non uscivamo per nessun motivo. Da tre giorni ormai. E le provviste stavano per finire.
Ma il cyborg ci aveva trovati, aveva sfondato la porta e veniva a prenderci. Tenevamo una pistola in casa per motivi di emergenza e mia madre aveva pensato bene di usarla. Aveva fatto saltare un occhio al cyborg, e al suo porto c’era un orrendo buco nero. L’altro l’occhio era una luce rossa fiammeggiante.
Il cyborg aveva perso un braccio ed era ferito alla gamba sinistra. Camminava male e non poteva correre, per questo potevamo avere un minimo di vantaggio. Ma non molto.
Ci avrebbe ucciso, lo sapevo che ci avrebbe ucciso.
Ci rinchiudemmo nella mia camera, una stanzetta non molto grande. Il cyborg stava prendendo a calci la porta, che presto avrebbe ceduto. Mia madre spostò bruscamente la scrivania e la usò per barricare la porta.
Guardai la foto incorniciata al muro. Raffigurava me, mia madre e mio padre. Già, mio padre. Chissà che fine aveva fatto? Povero papà, che ti hanno fatto?
La porta si incrinò terribilmente. Avrebbe ceduto.
La finestra! Mia madre aprì la finestra e l’impulso di uscire fu irrefrenabile, ma qualcosa ci trattenne. Fu la vista della città distrutta, i palazzi crollati, il fuoco, i carri armati...il silenzio terribile.
E la porta cedette. Il cyborg scaraventò via la scrivania ed entrò.

PRECEDENTEMENTE
Tutto era normale. La vita era quella di sempre, fino a che l’Associazione non aveva preso il potere. Lo dicevano che era pericolosa, che era gente fuori di testa, ma nessuno faceva niente. E fu un errore.
Avevano il loro progetto di ristrutturazione, una città tutta loro. E avevano iniziato.
Si diceva che non fossero neppure uomini, che fossero una sorta di...razza. Si diceva che facessero strani esperimenti sugli uomini. In effetti era scomparsa parecchia gente in quei giorni, ma nessuno ci fece poi molto caso. In fondo era una grande città del terzo millennio e ognuno si fa i cazzi propri.
Fu quando la palla di ferro di una gru sfondò una parete di casa D’Archi e i cyborg entrarono dentro che la gente iniziò a ribellarsi. E fu peggio. Iniziò lo sterminio.
I carri andavano avanti e indietro, le macchine volanti passavano bombardando tutto, i cyborg mettevano tutto a ferro e fuoco. Spesso entravano nelle case dove si trovavano i rifugiati e sterminavano chiunque trovavano.
Come da loro decisione, gli umani non dovevano essere la specie dominante. Dovevano esserlo loro, le macchine.
Lo sterminio proseguiva da tre giorni, ormai, e non sarebbe stato necessario procedere ancora per molto. Gli umani erano finiti e i pochi che si ostinavano a sopravvivere sarebbero stati uccisi nel giro di poche ore.

Mia madre puntava la pistola in faccia al cyborg. Questi era fermo, davanti a lei, immobile, con l’unico occhio che la fissava. Dalla mano spezzata scendevano gocce di sangue rappreso.
«Cosa vuoi da noi?» gli chiese lei.
Il cyborg non rispose. Dalla sua faccia non traspariva nessuna espressione.
«Chi sei?» chiese lei.
Il cyborg alzò l’unica mano e se la guardò.
«Chi sono io?» si chiese con voce metallica.
«Non puoi avere dimenticato!»
Il cyborg ebbe un sussulto. Vidi la sua faccia fare una leggerissima smorfia. Evidentemente qualcosa che aveva detto mia madre non lo aveva lasciato del tutto indifferente.
Mia madre stava abbassando lentamente la pistola, anche se non credo che se ne stesse rendendo conto.
«Tu ricordi, lo so che ricordi... altrimenti ci avresti già ammazzato tutti e due!»
Il cyborg continuava a fissarsi la mano come se potesse trovare lì una risposta.
«Tu non sei un assassino!»
Il cyborg parlò di nuovo.
«Io sono...una macchina.»
«So che mi puoi capire. Quei bastardi hanno fatto il trattamento anche a te!»

IL TRATTAMENTO
Francesca D’Archi, 14 anni, era stata rapita e i suoi uccisi. Li aveva visti morire, trapassati dai proiettili dei cyborg.
Era stata portata a quella che doveva essere una specie di base sotterranea. Poi l’avevano spogliata e immobilizzata.
Avevano scelto lei come primo esperimento perché era molto giovane. Il suo sviluppo fisico era ancora agli inizi ed era più facile per lei reggere alla trasformazione.
Aveva visto sé stessa mentre era ancora un piccolo feto rinchiuso nella sua sacca, si era vista in una bolla di sapone, si era vista salire al cielo leggera come l’aria.
Le sue ossa si facevano più forti, le sentiva più spesse e resistenti. Sentiva l’acciaio.
E quando si risvegliò non ricordava più niente della sua vita da adolescente. Si passò una mano sulla testa e, seppure questa fosse ormai insensibile al tatto, si accorse che non aveva più i capelli. Una cicatrice all’altezza della fronte era il segno della lobotomia che gli era stata praticata.
Ora era anche lei una di loro, un essere vuoto, un guscio vuoto senz’anima, pronto a combattere quella che un tempo era stata la sua stessa specie.
Era un cyborg.

«Andate via.» disse ferocemente il cyborg.
Mia madre lo guardò senza capire.
«Andatevene, ho detto! Prendono precauzioni nel caso che noi riacquistiamo l’autocoscienza! C’è una bomba dentro di me!»
A quelle parole io mi buttai dalla finestra, incurante delle macchine di morte che erano fuori. Mia madre fece lo stesso, in preda al panico.
Ci mettemmo a correre, ci allontanammo dalla casa il più possibile.
La casa esplose con un boato.
Quando il fumo si fu diradato mia madre si diresse verso lo casa, in lacrime.
Trovò la testa del cyborg tra le macerie. La pelle era in gran parte bruciata mostrando il teschio metallico. La luce rossa che aveva per occhio era molto più debole.
Mia madre l’abbracciò e la strinse forte a sé, quella testa.
«Perché? Perché questo?» singhiozzò in lacrime.
Non seppi dire niente, se non vedere la luce rossa all’occhio del cyborg spegnersi definitivamente.
Mio padre era morto.
E la battaglia appena cominciata.


di Cagliostro