La rotta era stata clamorosa: ora i turchi, l’orribile orda dalle strane vesti e dal linguaggio incomprensibile, aveva davanti sterminati spazi sguarniti, fino a Vienna, e lui, Ruggero von Masterich, era disonorato per sempre. Era fuggito, sì. Creato cavaliere per la carenza di armati, aveva visto cadergli al fianco, morti, il padre, il fratello, troppi compagni, il terrore l’aveva vinto. Ancora scappava, galoppava a briglia sciolta, la spada inerte che gli batteva sulla coscia; “A che pro vivere senza onore”, sentiva ripetere in famiglia fin dall’infanzia: nessuno che mai si chiedesse a cosa servisse l’onore ai morti.
E correva, intanto, correva senza badare al dove, solo lontano dalla battaglia, via dalle migliaia di infedeli che menavano strage orribile di gente battezzata, che potevano essere nascosti dietro ogni albero, fosso, cespuglio. Riparò infine in un bosco: un esercito vincitore suole evitare le selve insidiose ed ardue d’attraversare, il fuggiasco, penetrato di qualche centinaio di metri fra gli alberi fitti, poteva ristorarsi un poco. Suono di foglie secche schiacciate. Qualcun’altro camminava in quei dintorni, e più con l’incedere cauto e astuto del cacciatore che con quello circospetto del fuggitivo.
Ruggero tese l’orecchio per ascoltare meglio, ma crescevano uno stormire di fronde al vento e le gocce di una pioggia grossa e densa, presto un temporale, coprendo ogni altro rumore, mentre il Sole, giunto al termine della sua quotidiana fatica, si nascondeva sotto l’orizzonte impedendo la vista. Come salvarsi, ora? Come fuggire un nemico invisibile? Solo una possibilità: rendersi altrettanto invisibile, anche a costo di lasciare il destriero, anzi, se non avesse lasciato tracce nel scendere, forse i mori avrebbero inseguito la cavalcatura in luogo del cavaliere. Un ramo basso, egli vi si aggrappò mentre l’animale si perdeva nella vegetazione: di qui, sempre celandosi fra le fronde passò su un albero, su un’altro; al terzo salto, il legno cedette al suo peso. Precipitando brancicava nel cercare un appiglio, gli parve di toccare qualcosa di solido con una mano, la strinse, ma la violenza della caduta lacerò la pelle ed aprì la presa.
Un dolore lancinante urlava in ogni membro, in terra, ma egli soffocò il grido in una smorfia deformante: già il rompersi del ramo, il tonfo del suo corpo potevano avere attirato gli infedeli. Doveva andarsene da lì, stringere i denti ed andarsene. Zoppicava rapido, in testa gli tuonava il cic-ciac dei suoi stessi piedi sul terreno fradicio: scappava, ed intanto denunciava la sua presenza. La gamba destra doveva essere rotta, la fuga disperata: i turchi erano in forze, integri, forse a cavallo, certo più veloci di lui, e quei passi rimbombanti glieli attiravano addosso. Una formazione rocciosa, un ingresso celato in parte dal sottobosco: Ruggero ci si buttò, magari non l’avrebbero notato, almeno avrebbe potuto affrontarli ad uno ad uno. Picchiò duro, non era una grotta, solo una rientranza poco fonda dietro i rovi, ciononostante il cavaliere, esausto e quasi incapace di rialzarsi, vi si acquattò, l’orecchio aperto ad udire i suoni più minacciosi, la vista aguzzata a scoprire insidie, la mano che stringeva e lasciava febbrilmente l’elsa della spada.
Ben sapeva come i turchi trattassero i cristiani catturati: i più fortunati venivano impalati, e neppure poteva pensare ad un grosso legno acuminato penetrare là, lento, inesorabile. Altri, scorticati e poi serviti come portata principale in osceni banchetti, con la mela in bocca come porci, o sottoposti ai più raffinati tormenti, ché a quelle menti perverse non mancava la macabra fantasia. Ma questo era nulla: alcuni, venivano consegnati vivi ancora a Satana in pegno del patto stretto col Sultano, in virtù del quale sempre quell’esercito era vittorioso. Adesso, col calar delle tenebre, c’era il caso che anche le forze infernali fossero state evocate per catturarlo. Che cosa può rivelare un diavolo che si avvicina? O sarebbe spuntato direttamente dal suolo, afferrandolo per portarlo giù nel fuoco eterno o nel campo dei turchi? Ma questo, questo poteva benissimo essere un suono d’umani: qualcuno si muoveva sulle foglie bagnate, lo sentiva nonostante lo scrosciare della pioggia.
Un lampo squarciò un istante le tenebre: l’ombra di un guerriero era lì, appostata non lungi fra i cespugli, che lo guardava. Ruggero sguainò la spada, la puntò gettandosi là dove aveva intravisto la presenza, sentì la lama affondare in qualcosa di morbido - la carne del turco, o del demonio? – e neppure la ritrasse, già era tornato a correre come meglio poteva, aprendosi la via fra la ramaglia pungente, senza poter capire in quale direzione stesse affannandosi, né se procedesse diritto o zigzagando: muoversi, spostarsi per non offrire un punto fermo era quel che davvero contava, almeno finché non avesse trovato un nascondiglio relativamente sicuro. Ma che cosa può essere sicuro quando a cercarti sono le potenze dell’Abisso?
Tuttavia, non poteva procedere ancora a lungo: il dolore si stava facendo impossibile a sopportarsi, a tratti si sentiva mancare. Ricordava confusamente una leggenda in cui, per celare un bimbo ad uno stregone, o qualcosa di simile, che voleva divorarlo, qualcuno aveva appeso la culla ad un ramo, sicché non fosse né in terra né in cielo, e certo le foglie offrivano un buon riparo anche agli occhi umani. Ammesso di non trovarvi un turco già appostato! A forza di braccia, Ruggero si issò su di una solida quercia: nessuno fra le fronde, per fortuna. Con tutta la cautela che gli concedevano fretta e paura, si trascinò verso il cuore della chioma, dove la copertura era migliore, cercò una solida biforcazione del tronco, vi si lasciò cadere distrutto.
Per minuti restò lì, con gli occhi torti, ansimando piano, e quasi la stanchezza cercava di persuaderlo di essere al sicuro, che poteva dormire, ma egli ben sapeva che non poteva cedere, perché non c’è modo migliore di cadere preda di chi ti sta braccando che abbassare la guardia e cedere al sonno. Era stato ben stolto ad abbandonare la spada nel petto di un inseguitore: ora, si trovava del tutto inerme, salvo che per un corto pugnale, non molto per fronteggiare una schiera cui nessun esercito riusciva ad opporsi e certo furibonda per il suo ultimo assassinio senza onore. Per non menzionare le potenze dell’Oltretomba. Ma, se pure avesse avuto seco la più potente delle armi, come sopravvivere l’indomani? Non avrebbe mai potuto sperare di rimanere ancora a lungo celato in mezzo a quella moltitudine ostile, in territorio nemico oramai: presto o tardi l’avrebbero preso senza dubbio, eppure desiderava fortemente salvarsi ancora un giorno, un’ora, un minuto, solamente ritardare il certo supplizio. Ogni momento di quella vita avvelenata dal dolore e dalla paura gli pareva un tesoro inestimabile.
Sapeva che gli infedeli non gli erano più solamente dietro ma, dato il suo procedere lento e spezzato da pause, anche davanti, d’un canto, dall’altro, forse al di sotto del suo stesso albero! Le nubi e le fronde coprendo la Luna ostacolavano quasi del tutto la vista, ma pure mescolati alla pioggia gli giungevano i suoni dei loro passi, delle loro scimitarre, della loro favella biascicata ed oscura…ed erano tutt’attorno! Laggiù, a destra e lontano, ora più presso di fronte, vicinissimo da dietro: Ruggero si voltò di scatto, ma non abbastanza rapidamente da scorgere altro che una figura confusamente muoversi dietro un rovo. Quei demoni gli facevano ora la posta, forse si erano fatti prudenti dall’uccisione del compagno, probabilmente lo credevano armato, certamente avevano capito dov’era. Ecco infatti un rumore vicino dalla parte opposta, ed uno di fianco: non più i fruscii di chi cammina cercando, bensì di chi si tradisce mentre si apposta per tendere una trappola. Ora non restava che attendere che quelli si decidessero a farsi avanti, potevano farlo ad ogni istante, oramai le maglie erano strette, eppure indugiavano. Perché? Sadici, si beavano a giocare con lui, a vederlo palpitare soffocando di terrore, con quegli occhi che tutto vedevano nelle tenebre, perché erano venduti al Demonio.
Improvvisamente, capì: nell’esplosione di un fulmine riverbero lontano comparve un tronco schiomato ritto non lungi, il suo palo, glielo stavano preparando, e poi l’avrebbero preso, infilato lassù. Mai! Quasi a tutt’uno con questa vista si calò rapido in terra. Gli pareva di percepire il duro legno penetrare nelle sue viscere vive, molto meglio cercare una subita morte in una fuga senza speranza: forse, se li avesse colti di sorpresa con uno scappare folle, qualcuno nella concitazione gli avrebbe assestato un colpo letale. Al suolo, incurante dell’osso che gli scoppiava nella gamba e gli masticava le carni, si trascinava avanti con le mani, col piede sano, alla cieca, ad ogni istante sicuro di essere preso, per un altro istante salvo.
D’un tratto si trovò fuori dall’intrico degli alberi, come in una caverna fra le chiome più fitte: era la fine, lì era esposto più che mai. Clop clop… un cavallo in corsa, terribilmente vicino, una fiaccola accesa in mano all’uomo che lo montava, al sua morte. Ancora disperatamente si volse a fuggire, ma le forze cui troppo aveva chiesto lo tradirono di schianto, il dolore lo sopraffece, cadde riverso ed esanime.

Il mattino appresso Ruggero aprì gli occhi su un muro di pietra. Una cassapanca, una finestra senza sbarre, la luce: strano, proprio non pareva una prigione, né l’oltretomba, e lui, lui era disteso su un letto, e vestiva una tunica pulita, di foggia cristiana. Una fitta all’arto offeso chiamò lo sguardo: qualcuno l’aveva bendato, medicato. Udiva un parlare sereno. La porta si aprì, ne entrò un uomo barbuto e familiare che sorrideva benevolo.
- Zio! Che sollievo vederti! Ieri notte mi credevo preso e perduto. E che gioia scoprire che anche tu sei sopravvissuto alla disfatta di ieri.
- Disfatta? Figliuolo, lieto che ti sia ripreso ma…di che vai parlando? Ieri c’è stata solo una grande vittoria delle forze del re d’Ungheria, finalmente siamo riusciti a respingere quel branco di infedeli…


di Menippo