Restammo zitte. Passarono i secondi, i minuti, le ore. Passarono i giorni, e nessuna di noi due si decise a parlare. Finché il telefono non squillò…

«Pronto… si, è qui con me…»


Io e mia sorella Lucia. Non saprei dire da quanto ci prendiamo cura una dell’altra. Ma è così, da quando ci fu l’incidente. Eppur io e Lucia siamo sempre state così diverse una dall’altra. Lei ha sempre avuto quella voglia di sognare che io non posseggo, quella voglia di viaggiare e di vedere, di dipingere e di parlare. Io sono l’opposto. Ed in fondo c’è solo una cosa che ci accomuna davvero: la musica. Lucia predilige la classica, io il soul, ma capita a volte che rimaniamo in casa, sveglie, tutta la notte, e su un delicato tappeto musicale (non importa di che musica si tratti) ci sdraiamo, e guardiamo il soffitto, persa ognuna nel proprio mondo. Ed è così, fino all’alba. Io e Lucia ci odiamo cordialmente.

La casa ci è stata lasciata dai nostri genitori. Non avevamo mai avuto modo di parlare quand’erano ancora in vita. Invece adesso mi sento più propensa a raccontargli tutto, quando arrivo d’avanti alle loro lapidi. Sono divenuti miei silenziosi confidenti, delizia per le orecchie e le labbra, che si schiudono velocemente raccontando le più intime fantasie. Lucia invece preferisce riempire quaderni carichi di fogli e parole inutili: quando glie ne strappai uno di mano, la prima volta, mi prese un colpo: “La odio, la odio… odio Laura…”, c’era scritto. Forse ne avrei dovuto solo sorridere, anch’io provavo la medesima cosa, verso di lei e soprattutto verso me stessa, ma in quel momento fui colta solo dall’ira, e la schiaffeggia in pieno viso. Ho ancora la mano tutta indolenzita. Quella sera andò via piangendo.

Camminava stravolta. Ogni tanto portava una mano alla guancia destra, accarezzandosela e sentendosela bollente, gonfia. Era colpa sua se l’odiava? No, non lo era. Eppure un sottile senso di colpa, come lama di coltello, le si insinuava sottopelle. Camminava velocemente, senza badar ai passanti. Le vetrine erano solo superflui bagliori in quella serata d’autunno, eppur Lucia amava da sempre fare shopping: quando sua madre era ancora viva, perdevano pomeriggi interi per le strade di Roma, a provar vestiti, o quel paio di begl’orecchini che la mamma aveva intravisto all’interno di un negozio, o a mangiare pizza, sulle gradinate di Piazza di Spagna. E quante volte avevano osservato i bei ragazzi che passavano di lì, sottecchi, magari commentando in silenzio ed esplodendo in una fragorosa risata che spingeva i passanti a voltarsi verso di loro e a sorriderne. “Quanto vorrei che Laura, almeno una volta, venisse insieme a noi…”, bisbiglio distratta una volta, incupendosi e abbassando lo sguardo. E Laura infatti restava a casa in quei lunghi pomeriggi estivi, sui libri, nella propria stanza, silenziosa e seria come sempre. Ma non studiava Laura in quei momenti. La sua mente era impegnata ad odiare, odiare quella madre così legata a sua sorella da curarsi tanto poco di lei, quel padre sempre troppo impegnato con il lavoro per seguirla negli studi, e Lucia, che le rubava tutta l’attenzione e l’affetto della famiglia. “Era così diverso quando lei non c’era…”, ripeteva, spesso, con quei suoi occhi neri carichi di rabbia.

Ma Lucia non era con sua madre quella sera, non si trovava più a Roma, non c’era più né Piazza di Spagna né i dolci argini del Tevere. I passanti non le sorridevano più allegri, non davano più a credere che lei e la mamma fossero sorelle. La mamma non c’era più, e con lei era venuto meno tutto il resto. Assorta nei propri pensieri non si rese conto di stare per travolgere un ragazzo che camminava nella direzione opposta alla sua. Il tonfo fu sordo, Lucia fu catapultata a terra. Si rialzò dolorante, chiedendo scusa senza guardar in faccia il malcapitato. Lui invece si chinò, raccolse la borsetta rosa e ciò che vi era caduto, le chiavi, un fazzolettino bianco, la patente: “Lucia Anselmi… nata l’11/12/84…”, lesse. Lucia arrossì un poco, alzò per un istante lo sguardo e lo riabbassò immediatamente, tirò via dalle mani dello sconosciuto la borsa e le altre cose, chiese ancora scusa e scappò via. Per quanto ancora avrebbe potuto correre?

La notte illuminava con la propria oscurità il giardino sottostante. Laura vagava per la casa, isterica. Dove poteva essere andata? Via, via di là, finche il sole non l’avesse presa. Sarebbe stato la strada a divorarla, a portarla via con se, a finir quel che lei aveva cominciato, un anno prima. Prese la giacca, la tirò via dall’attaccapanni, sbatté la porta, un quadro cadde. Dopo pochi minuti era già al cimitero. Scavalcò il portone, velocemente, doveva fare presto prima che la notte finisse. I suoi genitori erano lì, sembravano aspettarla. Si sedette, accarezzò le loro foto. Li ritraevano giovani, belli, come lei non era mai stata, come non lo sarebbe mai diventata. Abbassò il capo: “E’ scappata, via, lontano da me. Presto forse vi raggiungerà. Io no, io rimarrò sempre lontana, nella vita come nella morte…”. Perché non avete mai saputo amarmi?

Di nuovo in piedi, sentì un rumore alle sue spalle. Lucia era lì, la guardava. Le sorrise.

Io e mia sorella Lucia siamo diverse. Prima che lei arrivasse nelle nostre vite, mamma e papà amavano solo me. Un giorno però il cielo dei miei genitori si illuminò di luce propria: io non ero altro che un’umile lampadina. Come avrei mai potuto competere con il sole?

Io ero la notte, oscura e incompresa.

I preparativi si protrassero a lungo, mesi interi per far si che tutto avvenisse perfettamente, senza nessun intoppo. E finalmente il giorno arrivò, il giorno della vendetta. Gli esami all’università mi rubavano tutto il tempo, quella sera riuscii facilmente a trovar una scusa per non andare. Mamma, papà e Lucia non si curarono del fatto che non volessi venire: uscivo raramente, anzi, quasi mai. E non è che si curassero così tanto di me d'altronde. Non avevano nemmeno notato i libri di meccanica, sulla mia scrivania, i lunghi pomeriggi passati nel box. Mai come in quei momenti ero stata felice dell’assoluta indifferenza della mia famiglia nei miei confronti.

Lucia era così felice, suo padre le avrebbe permesso di guidare sino a casa di sua zia. La festa di compleanno non sarebbe cominciata che tra due ore. Sua madre era però così contrariata quella sera: “Laura passa troppo tempo a studiare, sempre chiusa in casa, senza amici o un fidanzato…”, povera ragazza, diceva, come avrebbe voluto che si aprisse, che dialogasse, che ridesse e scherzasse assieme a loro. Si incamminarono alle sette. Solo alle nove la polizia telefonò a casa di Laura, per avvertirla. La corsa in ospedale avvenne tra una lacrima ed un sorriso, poi arrivò e la vide. Era distesa sulla barella, immobile, il respiratore attaccato. “Per i suoi genitori non c’è stato nulla da fare…”, le dissero.

Dopo due mesi di coma Lucia aprì gli occhi. Ma ormai era diversa.

La polizia indagò a lungo. Il caso fu archiviato come incidente. Laura fu costretta a prendersi cura di sua sorella nonostante Lucia fosse ormai maggiorenne. Non era guarita, ogni notte si svegliava, urlando, ed ogni mattina era sempre più pallida. Non usciva più di casa e non mangiava. Lo shock era stato troppo forte, dissero i medici. Laura invece aveva cominciato a capire. Ogni notte andava dai suoi genitori, a goder del successo ottenuto, ma Lucia era ancora con lei, e non poteva farci niente, continuava a rubar la vita che lei desiderava avere. Nessuno aveva compreso, Laura sì. Un giorno glie ne parlò apertamente:

«Quando è successo?»

«In ospedale… Lui dice che sono in molti a trovarsi in corsia, ogni notte…»

«Ma quando ti sei veramente resa conto di quel che stava accadendo?»

«All’inizio sembrava tutto un sogno. Io ero lì, e vedevo quel che succedeva, anche se non potevo parlare e fare niente…»

«E poi…?»

«Poi, una notte, mi sono svegliata… Non ero più in coma, mi disse… Semplicemente mi stavo trasformando… Ma era ancora troppo presto…»

«Perché tu…»

«Perché lui dice che sono bellissima, proprio come mamma…»

«E’ sempre stato il mio sogno quello, perché me lo hai rubato…»

La trasformazione era terminata pochi giorni dopo il suo ritorno a casa. Da quella notte nessuno era più entrato o uscito dall’appartamento. L’invidia di Laura crebbe a dismisura. Perché, perché lei non era stata scelta? Ed, ironia della sorte, era stato proprio Laura a far si che tutto quello fosse potuto succedere.

E molti giorni erano passati, ormai, giorni che le avevano condotte entrambe alla tomba dei loro genitori. Anche Laura era ormai una di loro, Lucia era stata misericordiosa ed, in fondo, erano ancora sorelle. Laura non le aveva mai rivelato quel piccolo segreto di cui solo lei e i suoi genitori erano a conoscenza. Il sole sarebbe sorto tra pochi minuti, senza dire una parola tornarono a casa.

Chiusi la porta delicatamente. Lucia era di fronte a me, e mi guardava. Avevamo avuto la stessa idea, entrambe eravamo andate dai nostri genitori e loro avevano aspettato entrambe. Guardai il colore roseo e le labbra rosse di mia sorella e mi sorpresi quando capii che si era nutrita. Forse nemmeno lei sarebbe tornata da mamma e papà, alla sua ultima morte, un giorno.

Così restammo lì, in cucina, zitte. Passarono i secondi, i minuti, le ore. Passarono i giorni, e nessuna di noi due si decise a parlare. Finché il telefono non squillò…

«Pronto… si, è qui con me…»

Sono l’una. Laura è ancora lì, distesa su di un tappeto di musica, immersa nel proprio mondo. Ad un tratto si alza, va verso il grande armadio proprio di fronte al letto. Apre prima una, poi entrambe le ante. All’interno dell’ultimo cassetto trova quei documenti, gli stessi documenti che aveva scoperto anni prima, quando era ancora bambina, il giorno della nascita di sua sorella. Ma ormai non aveva più tanta voglia di leggerli.

“Certificato d’adozione: La qui presente Laura Angioli, nata l’11/12/1980, viene data in affidamento al sig. Paolo Anselmi e consorte, Angela Piccabuoni (…)”


di Eric F. T. Dron