Che giornata… Era iniziata come al solito, male, ed era proseguita decisamente peggio.
Uno stupido alterco con uno studente gli era valso la sospensione.
Incredibile!
Lui, stimato professore di filosofia, sospeso per aver impartito una meritata punizione ad uno scolaretto imberbe di quattordici anni.
Stupefacente, la sua vita andava a rotoli sempre più velocemente, giù per una scarpata senza appiglio, e lui restava inebetito a guardare gli altri farsi beffe della sua intelligenza, denigrare la sua integrità, prendere a calci il suo orgoglio.
Ritto dinnanzi al preside come uno studentello impaurito, a giustificarsi di un ceffone!
“La sua condotta è stata a dir poco disdicevole” aveva sentenziato l’anziano George Hewitt, “un uomo che ricopre il ruolo di tutore ed istruttore, di guida, per le giovani menti che gli sono affidate, non può e non deve cedere all’ira!”.
Un colpo di tosse roco gli aveva squassato il petto.
“Signor preside, mi permetta di aggiungere che il ragazzo mi ha mancato diverse volte di rispetto, che il suo atteggiamento insolente nei miei riguardi era stato fatto più volte presente alla sua famiglia ed al consiglio di istituto…”.
“Non voglio sentire alcuna giustificazione!” Aveva tuonato il distinto signore barbuto, aggiustandosi gli occhiali con un gesto stizzito della mano.
“Lei è sospeso”.
Silenzio.
“Lasci la scuola subito, riparleremo dell’accaduto con calma nei prossimi giorni”.
Aveva tentato di replicare, ma l’uomo gli aveva definitivamente voltato le spalle, senza badare minimamente alle sue parole.
Era uscito dalla presidenza, muto, con le spalle abbassate; una volta giunto nel lungo corridoio scuro che dava sulle scale, aveva incrociato per un solo lungo ed interminabile attimo, lo sguardo soddisfatto ed ironico di Albert, la povera vittima delle sue percosse.
“Povera vittima!” imprecò.
Una signora seduta di fianco a lui, lo fissò insospettita.
Non ci badò.
Si guardò attorno per sincerarsi che nessun altro lo avesse sentito parlare da solo.
Le panchine della stazione erano gremite di gente; signore anziane che attendevano il treno per far ritorno alle loro case di periferia dopo aver fatto spese nel centro cittadino; uomini in giacca e cravatta reduci da una noiosa giornata di lavoro spesa in qualche anonimo ufficio; ragazzi appena usciti dalle scuole; innamorati che si sussurravano parole dolci all’orecchio. Chissà perché (pensò) le stazioni dei treni sono sempre piene di coppie?
La sua dolce metà lo aveva lasciato due anni e mezzo prima, dopo quasi undici anni di matrimonio.
“Siamo diventati incompatibili” gli aveva detto una fredda serata d’autunno, mentre la città era straziata da un lugubre temporale. “Siamo cresciuti in modo diverso, caro, le nostre aspirazioni non si incontrano più, i nostri sogni non si assomigliano ed i nostri corpi non si sfiorano da troppo tempo”.
Aveva tentato di spiegarle che il suo amore per lei non si era mai neppure affievolito nei lunghi anni che avevano trascorso insieme, aveva tentato di riconquistarla, ma nessuno dei suoi sforzi era valso a qualcosa.
Pochi mesi dopo si era visto recapitare nel suo studio presso il liceo dove insegnava, una bella ingiunzione di divorzio, dove ogni dettaglio economico era stato perfettamente stabilito: a lui restava la casa; a lei tutto il resto.
Non era trascorso molto tempo prima di scoprire che la ragione dei malumori della sua ex moglie nei suoi riguardi, si chiamava Edward, aveva dieci anni meno di lui, ed indossava gli abiti rampanti di un broker di successo.
Amara la vita.
Eppure era riuscito a superare quel brutto momento, almeno ci aveva provato.
L’insegnamento aveva assorbito tutto il suo tempo, le sue energie ed il suo interesse.
Amava dissertare di filosofia di fronte agli sguardi rapiti dei suoi studenti; quei ragazzi che pendevano dalle sue labbra, che lo ammiravano, che lo stimavano…che lo deridevano ininterrottamente da circa vent’anni.
Gli era costato ammetterlo, specialmente con sé stesso, ma alla fine la verità era venuta a galla, come un vecchio cadavere gonfio e putrefatto riemerge dai gorghi di un fiume, così la disillusione era affiorata alla sua coscienza.
I suoi studenti non lo amavano, lo evitavano, e nel caso peggiore lo schernivano; come quel piccolo bastardo di Albert, sempre pronto a sbeffeggiarlo durante le sue lezioni.
Lo aveva sorpreso durante l’intervallo ad esibirsi in una sua caricatura. Il giovane camminava impettito avanti ed indietro per il piazzale interno della scuola, ammiccando, arricciando il naso, impostando la voce, scimmiottando quel “vecchio rompi palle” del suo professore, anzi “quel vecchio e rimbecillito rompi palle”.
Lo aveva picchiato.
Un mal rovescio.
Secco.
Forte.
Che aveva fatto volare a gambe all’aria quel piccolo teppista.
Come si era sentito bene.
Come si era sentito felice.
Come si era sentito realizzato.
Ma per aver fatto l’unica cosa sensata, era stato ingiustamente punito.
Il capostazione annunciava quasi senza sosta l’arrivo dei treni: Portland, Bangor, Little Rock; ad uno ad uno gli altri viaggiatori lasciavano le loro panchine per raggiungere il binario indicato, solo la sua destinazione non era stata ancora chiamata. Rimasto solo nella stazione, si diresse verso un tizio in divisa che stava consultando un taccuino di pelle scura.
“Mi scusi?” chiese.
“Sì?” rispose gentilmente l’uomo. Era molto giovane, con dei folti capelli corvini che scendevano in riccioli
scomposti sulle spalle larghe, un sorriso tagliente e dei lucenti occhi azzurri, aveva la strana sensazione di conoscerlo.
“E’ più di un’ora che attendo che arrivi il mio treno, ci sono per caso dei ritardi?”.
“Qual è il suo treno, Sir?”.
“Sir?” chiese sbigottito.
Il ragazzo lo osservò perplesso, non capendo la ragione del suo stupore.
“Il treno per Lostown” replicò riacquistando un contegno.
“E’ appena giunto, binario tredici”.
Prendeva quel treno da molti anni ormai, ma non rammentava che fosse mai esistito un binario tredici.
S’incamminò pensieroso, giunse dinnanzi al treno e notò immediatamente l’anomalia di quella vettura: era piccola e nera, con dei minuti comignoli di ferro che facevano capolino qui e la sopra il tetto in lamiera, i finestrini,di un singolare color rubino, erano tutti alzati, due linee di vernice rossa contornavano con ricche volute la parola “Express” stampata in lettere dorate sulla fiancata.
Entrò.
Vuoto.
Il vagone era interamente deserto.
Si sedette in un comodo scompartimento con i sedili di pelle rossa ed una eterea tendina di pizzo bianco a coprire il finestrino. Chiuse la porta scorrevole alle sue spalle e si sdraiò sul lungo sedile vuoto; accavallò le gambe sul bracciolo di legno scuro ed osservò pigramente il soffitto per alcuni secondi.
La porta si aprì.
Sobbalzò imbarazzato alla vista del controllore, si sedette e sorrise impacciato.
“Il suo biglietto per favore, Sir”.
“Subito…”.
Pescò dalla tasca della giacca un pezzetto di carta spiegazzato, ma mentre lo stava porgendo all’uomo, si arrestò con la mano protesa a mezz’aria.
“Ma lei?” chiese.
“Sì, Sir?”.
“Lei è il ragazzo al quale ho chiesto informazioni meno di cinque minuti fa…”.
“E’ sicuro, Sir. Sinceramente non rammento. Vuole favorirmi il suo biglietto?”.
“Certo” rispose frastornato.
L’uomo osservò per qualche secondo il pezzo di carta, lo strappò lungo il suo angolo laterale, e lo restituì al proprietario.
“Buon viaggio, Sir” disse uscendo dallo scompartimento.
“Buon Dio!” esclamò.
“Roba da pazzi…ma dove sono capitato?” si chiese concitato. Forse era il caso di fare un giro di perlustrazione per la vettura.
Uscì con circospezione.
Si diresse verso il fondo del vagone.
Aprì con delicatezza tutte le porte scorrevoli che incontrò lungo il suo cammino, non incontrando nessun altro passeggero.
Giunse al fine ad una porta chiusa con un piccolo catenaccio.
Forzò il lucchetto arrugginito, che senza opporre resistenza, si spezzò fra le sue mani.
Uscì.
Si ritrovò all’aria aperta.
Poteva vedere gli alberi sfrecciare ai lati della strada, poteva scorgere la luna in cielo, sfavillante come non rammentava di aver mai visto, ma quando guardò in basso si rese conto che il treno non poggiava sulle rotaie, o meglio, non c’erano neppure delle rotaie, era semplicemente sospeso sul nulla, galleggiava su un immenso baratro nero che si estendeva a perdita d’occhio.
Gridò.     [ avanti » ]

di Vampire