Il sole filtrava appena attraverso la serranda abbassata.
La voce roca di sua madre gracchiava stridula in lontananza; parole senza senso di una vita vuota, trascorsa fra i fornelli di uno squallido appartamento di periferia a far da balia a quattro figli e a badare ad un beone che l’aveva abbrutita nell’animo e nella carne.
Mattew faticava ad emergere dai suoi sogni, ma era tardi.
Si alzò e senza guardarsi nello specchio di fronte al letto, si trascinò in bagno. Aprì la doccia e chiuse gli occhi sotto il getto d’acqua gelida (lo scaldabagno doveva essere di nuovo rotto) pensò distrattamente. Scostò la tendina lisa e ghermì l’asciugamano di fianco al lavandino. Si asciugò con cautela.
Lle cinghiate che il vecchio gli aveva inferto la sera precedente gli avevano impresso tracce livide sulla schiena magra, le ecchimosi si andavano espandendo,ma quello che bruciava non era il rossore della pelle lacerata, ma l’odio che ardeva nel suo giovane petto, l’odio per quell’essere che era costretto a chiamare padre, l’odio per l’impotenza in cui si sentiva attanagliato, prigioniero di un umido sudario fatto di frustrazione e di miseria.
Nella piccola cucina i suoi fratelli mangiavano in silenzio, sua sorella non era rincasata, Magdalene fumava appoggiata al davanzale della finestra con aria assente, lo vide con la coda dell’occhio:
“Tuo padre dorme ancora, vai al lavoro prima che si svegli” furono le uniche parole che gli rivolse prima di infilarsi nella camera da letto.
Mattew uscì senza replicare.
L’aria fresca della mattina sembrò destarlo da quel torpore irreale che lo assaliva ogni volta che poggiava lo sguardo sulla sua famiglia.
Corse per raggiungere in orario la libreria dove lavorava da due settimane.
Geordie, il suo datore di lavoro, era un ometto simpatico, stempiato e sorridente, che lo aveva assunto più per prenderlo sotto la sua custodia che per la reale necessità di un aiuto.
La libreria cittadina era un luogo profumato d’antico, tranquillo e ammantato da una sorta di bolla temporale, sospeso in una specie di realtà ovattata, il silenzio che regnava in quelle lunghe stanze ingombre di libri e di scaffali, regalava un meraviglioso senso di solitudine; si poteva vagare indisturbati per ore fra pareti di legno, lunghi tavoli illuminati da fioche lampade di vetro, visi assorti in antiche letture, parole sussurrate a fior di labbra. Mattew amava quel posto, amava i suoi odori, amava i misteri che quelle pagine custodivano gelosamente, amava imparare, amava conoscere le risposte alle sue domande
Geordie era già intento a mettere a posto dei volumi adagiati in grandi cartoni per lo più ancora imballati:
“Ciao Mattew, sei mattiniero, non ti aspettavo prima delle nove” lo osservò accigliato “stai bene?” gli chiese preoccupato.
“Sì, solite cose”.
“Ti ha picchiato ancora!” tuonò l’ometto.
“Sì, ma nulla di grave stavolta, era troppo sbronzo per infierire, si è stancato quasi subito”.
“Io non capisco perché sopporti tutto questo, hai solo sedici anni, i tuoi fratelli sono poco più che dei bambini. Dovresti denunciarlo, dovresti andare via, dovresti convincere tua madre a …”
“Ad ucciderlo, ecco cosa dovrei fare”.
“Se non lo fai tu lo farò io, giuro su Dio che lo denuncio io quel bastardo”.
“No, non lo faccia,la prego. Se dovesse uscire di galera ucciderebbe mia madre ed il resto della famiglia, di me non mi importa, ma loro non sanno difendersi; è tutto O.K., mi creda, appena avrò messo da parte un po’ di soldi me ne andrò e tenterò di portare anche i miei fratelli con me”.
Geordie accarezzò il volto del ragazzo con occhi lucidi e rossi:
“Non può continuare così Mattew, lo capisci anche tu, vero?”.
“Sì, non può continuare” i pugni del giovane si serrarono lungo i fianchi, tremava. Geordie lo abbracciò e Mattew si sciolse in lacrime, amare, profonde, calde come le fiamme dell’Inferno.
Si asciugò il volto con il dorso della mano:
“Cosa sono quelli?” chiese additando gli scatoloni di cartone.
“Dei volumi che ci ha inviato l’università della Contea, non ho avuto il tempo di esaminarli, se vuoi puoi aprirli tu e riporre i tomi nei rispettivi scomparti, della clientela mi occuperò io oggi, credo che tu abbia voglia di restare un po’ da solo”.
Mattew sorrise mesto e lo ringraziò con un cenno del capo.
Ad un ad uno trasportò le scatole nella saletta attigua e con un taglierino affilato le aprì.
I pacchi contenevano per lo più testi di storia della vicina facoltà di Lettere, alcune antologie di narrativa americana del Novecento, qualche romanzo di autori di cui ignorava l’esistenza, diverse biografie di scrittori, poeti e condottieri, nulla che lo interessasse. Per tutta la mattinata e la metà del pomeriggio si divise fra il reparto di narrativa e quello di storia, riponendo in bell’ordine i tomi sui rispettivi scaffali, non aveva mai archiviato nulla in vita sua, ma sembrava nato per quel lavoro, tutto era al posto giusto, ogni autore, ogni genere, ogni data.
La meticolosa e monotona precisione di cui abbisognava quel compito gli aveva svuotato la mente da ogni pensiero, per diverse ore non rammentò il dolore, l’umiliazione, lo scempio nel quale era cresciuto, c’erano solo loro: i libri, muti e sapienti.
Geordie gli portò un panino verso mezzo giorno, informandolo che si sarebbe dovuto assentare per il resto della giornata: sua moglie aveva avuto un incidente domestico, si era fratturata un polso cadendo.
Mattew lo rassicurò esortandolo a raggiungere la donna al vicino ospedale, gli promise che avrebbe ricevuto i clienti, che avrebbe chiuso alle sette e mezzo in punto e che gli avrebbe portato le chiavi del negozio a casa.
Il pomeriggio trascorse senza visite, in realtà Mattew non abbandonò neppure per un attimo i suoi scaffali, e se anche fosse entrato qualcuno non lo avrebbe di certo visto.
Verso le sei di un afoso pomeriggio primaverile aveva ultimato il suo lavoro, mancava solo un libro da mettere a posto, un vecchio e voluminoso volume rilegato in rosso che recava una strana scritta:
“In Tenebris”
Non c’era altro impresso sulla copertina, ne case editrice, né, tantomeno, autore. Non aveva idea di dove collocarlo; indeciso lo infilò fra i testi religiosi, quelli screpolati e polverosi che nessuno chiedeva mai.
Chiuse alle sette e mezzo, ma non riportò la chiave a Geordie.
Dapprincipio senza una ragione apparente, semplicemente non aveva voglia di farlo, era stanco, avrebbe aperto lui l’indomani, e gli avrebbe semplicemente detto che se ne era dimenticato, Geordie era una brava persona, si fidava di lui, non se la sarebbe presa.
Rientrò in casa, suo padre era sdraiato sulla poltrona di pelle di fronte alla tv, una bottiglia di birra in mano e lo sguardo torvo fisso sullo schermo, non lo guardò neppure, per stasera era salvo.
Sentì sua sorella singhiozzare dalla camera accanto socchiusa, entrò.
Mary era seduta sul bordo del letto, si stringeva il volto fra le mani sporche di sangue, il suo. Mattew le alzò il viso senza fiatare: il labbro ferito e l’occhio quasi chiuso per l’enorme ecchimosi scarlatta non avevano bisogno di parole.
“Perché?” le chiese con voce atona.
“Sono rimasta a dormire da Sally, crede che abbia sparlato di lui con i suoi genitori” rispose a monosillabi strozzati dal pianto.
“Mamma dov’è?”.
“Non lo so, quando sono rincasata non c’era, nemmeno Steve e Jason ci sono…non so…non so che fare…ti prego Mattew aiutami”.
“Vieni con me”.
La prese per un braccio e la trascinò in corridoio, Mary esitava, il mostro era ancora lì, addormentato.
Lasciarono furtivamente l’appartamento:
“Dove andiamo?”.     [ avanti » ]

di Vampire