[ « indietro ]     Aprì gli occhi a fatica, ed un raggio di luce gli ferì la vista.
Si trovava in una stanza da letto.
Un piccolo scrittoio era posto sotto ad una finestra spalancata, non c’erano quadri alle pareti, le mura erano scure e spoglie fatta eccezione per un piccolo crocefisso che pendeva sopra la porta, accanto al letto era sita una sedia a rotelle sulla quale giaceva addormentato il piccolo Stewart.
Bob si avvicinò, allungò una mano e si rese conto con stupore che le sue dita attraversavano con facilità il legno scuro della spalliera.
Tentò di afferrare la maniglia d’ottone della porta, ma gli attraversò il palmo.
(Incredibile) pensò (sono un fantasma...).
Qualcuno picchiò contro l’uscio.
Bob si ritrasse verso lo stipite, ma quando la porta si spalancò il materiale ligneo lo passò da parte a parte e la cameriera con il pranzo sul vassoio lo attraversò senza neppure accorgersene.
“signorino Stewart, la sua cena”.
Disse compunta lasciando le pietanze sul ripiano della scrivania, ed abbandondo la stanza con fretta nervosa.
Il ragazzo voltò con disinvoltura la sedia a rotelle, volse lo sguardo nella direzione di Bob, facendolo trasalire, poi si dispose di fronte al piatto fumante ed incominciò a mangiare.
Stewart era ancora più pallido di come Bob lo rammentasse, la cicatrice che gli zigzagava sul volto era di un rossore vermiglio, gli occhi spenti ed incavati lo facevano assomigliare ad un buffo pierrot, le mani erano ossute, rattrappite sui palmi e le gambe contorte erano nascoste da una coperta di pizzo bianca.
D’un tratto smise di mangiare.
Guardò intensamente la finestra e gli stipiti di quest’ultima si chiusero con fragore senza che il giovane li avesse neppure sfiorati.
Quando la stanza fu immersa nella penombra, Stewart gettò a terra la coperta, giunse le mani di fronte al volto, come immerso in una solitaria preghiera, e si librò a mezz’aria.
Bob era esterrefatto.
L’espressione di Stewart era di perfetta beatitudine.
Sembrava emanare una sorta di luce soprannaturale, un bagliore che gli scaturiva dalle mani giunte, dagli occhi riversi verso l’alto, dai capelli che gli svolazzavano attorno al volto emaciato.
D’un tratto la porta si spalancò.
Lawrence Sellinger entrò a passo di carica nella stanza.
Guardò il figlio con disprezzo.
Aprì la finestra e lo fissò dritto negli occhi:
“Scendi” gli ordinò “smettila con questi trucchi da baraccone, piccolo mostro deforme”.
Stewart planò con dolcezza sulla sedia, si coprì le gambe raccattando la coperta da terra e ricominciò a mangiare.
“Sei stata la mia rovina” proseguì l’uomo ruggendo “da quando sei nato nulla è stato più lo stesso. La tua deformità, la tua faccia” disse contorcendo il volto in un’espressione disgustata “e poi questo” aggiunse additando il soffitto “sei opera del Demonio, ecco cosa sei” sbraitò.
Il ragazzo non disse nulla, continuava a portare il cucchiaio alle labbra senza badare minimamente all’uomo che lo stava aggredendo.
“Perchè sei venuto?” gli chiese con distacco.
“Io e tua madre...”.
“Come sta mia madre?” chiese quasi sorridendo “sono quasi tre mesi che non la vedo, vive ancora qui?”.
“Certo che vive qui” disse Lawrence urlando “non riesce più a neppure a pensare a te dopo quello che le hai fatto”.
Lacrime cocenti scesero sul volto duro dell’uomo.
“Le sono guarite le bruciature? Oppure il suo bel viso è rimasto deturpato da quello spiacevole incidente?”.
“Incidente? Le hai fatto volare una candela accesa fra i capelli, hai il coraggio di chiamarlo ancora incidente?”.
“Come lei ha il coraggio di chiamare me errore” sentenziò il ragazzo. I suoi occhi azzurro ghiaccio risplendevano di una sorta di luce innaturale e spettrale, sorrideva, l’espressione più raggelante che Bob avesse mai visto dipingersi su un volto umano.
“Non voglio parlare con te” sussurrò Lawrence.
Stewart riprese a mangiare.
“Io e tua madre andremo in città per un paio di giorni, qui resterà la servitù al completo, tornerò a farti visita la prossima settimana”.
Uscì.




Le ore trascorsero pigre ed inutili.
Stewart non si prodigò in altri strabilianti esibizioni, si limitò a restare disteso sul letto con gli occhi sgranati, fissando un punto imprecisato del soffitto.
Bob attendeva di comprendere perchè si trovasse lì e soprattutto come ci fosse arrivato.
Stewart si drizzò a sedere, si massaggiò con forza le gambe, poi chiamò a gran voce Elizabeth.
In pochi minuti una ragazzetta magra e sciatta, con una cuffietta di crinoline appoggiata su una cascata di capelli rossi fiammanti ed una selva di efelidi che le costellavano il volto scarno, fece il suo ingresso nella stanza, e, dopo una breve riverenza, disse.
“Ha chiamato?”.
“Sì, massaggiami le gambe”.
La ragazza si sedette sulla sponda sinistra del letto, mise gli arti contorti del suo giovane e malato padrone sul suo grembo, e cominciò a strofinargli con vigore le caviglie.
“Tu hai paura di me Beth?” chiese Stewart volgendo lo sguardo verso la parete opposta.
“No, signorino, dovrei?”.
“Tutti hanno paura di me Beth”.
“E perchè mai?” chiese la ragazza sorridendo.
“Perchè sono un mostro” disse Stewart quasi urlando.
La ragazza fu colta da un momentaneo sgomento, si portò istintivamente una mano alla bocca per trattenere un gridolino, poi riacquistò un minimo di contegno, e, ricominciando a massaggiare i polpacci del giovane, aggiunse:
“Non è così terribile il vostro aspetto”.
Silenzio.
“Nel piccolo paese dove sono nata, tanti ragazzi hanno...bhe...qualcosa che non va”.
“Spiegati meglio” la esortò Stewart benevolo.
“Dicono che sia colpa della fame e della miseria. Il cibo manca, l’acqua è un lusso e tanti bambini soffrono di stenti e non crescono, oppure crescono male, come voi signorino”.
“Ma io non sono povero” aggiunse divertito il ragazzo.
“Oh, lo so signorino” ridacchiò lei “ma i disegni del Signore sono strani, forse il vostro male non è causato dalla miseria” concluse lei soddisfatta.
“Ed i ragazzi del tuo paese, i poveri storpi del tuo misero paese, sanno fare questo?” chiese enfatico.
Elizabeth non ebbe il tempo di chiedere null’altro, il suo esile corpo si librò nell’aria e rimase sospeso.
La ragazza si guardò i piedi con meraviglia, li cominciò ad agitare divertita, rideva, scalciava, inebriata da quell’incredibile esperienza; Stewart si rabbuiò, più la giovane emetteva urla di giubilo, più i suoi occhi assumevano quell’aria inquietante che aveva allarmato Bob poche ore prima.
Beth finì scaraventata contro la parete di fronte.
Picchiò la testa con tanta forza da lasciare un piccolo incavo nell’intonaco della parete, scivolò lungo il muro come una bambola di pezza, un rivolo di sangue vermiglio gli sgusciò sinuoso fra le labbra dischiuse, gli occhi sbarrati. Morta.
Bob gridò, senza emettere suono.
La porta d’ingresso si spalancò animata dalla volontà di Stewart, il cadavere di Beth volò fuori dalla stanza.
Stewart si distese sul letto e si addormentò.




Bob si destò come da un torpore arcano; era ancora lì, uomo invisibile in un’epoca aliena, a spiare una vita non sua, sospeso nel nulla di un delirio.
Stewart era di nuovo sulla sua sedia, il padre era seduto in lacrime sulla sponda del letto, singhiozzava.
“Quando lo hai scoperto?” gli chiese il figlio con voce ferma.
“Durante la prima notte che abbiamo trascorso in albergo” la voce dell’uomo era impastata, stentata.
“Lo ha chiamato dal telefono della nostra camera, e...Oddio, quello che gli ha detto” si fermò interrotto da un ennesimo singulto “sono amanti da più di un anno, si incontrano qui, proprio nella nostra casa. Ha detto che lo ama, glielo ha detto mentre ero nella stanza da bagno, credeva che non la sentissi”.
Stewart si voltò verso suo padre.
“Vuoi che li uccida, non è vero?”.
Lawrence si ammutolì, acconsentì con un sofferto cenno della testa.
“Tu vuoi l’aiuto del Diavolo” aggiunse il ragazzo in preda ad una risata isterica.
“Ho bisogno del tuo aiuto, non avrei mai il coraggio di...di...”.
“va bene, lo farò”.
Lawrence Sellinger fissò il figlio con assoluta gratitudine e forse per la prima volta nella sua vita lo amò davvero.
“Ma ad una condizione”.
“Quale?”.
“Voglio morire”.
“Cosa?”.
“Da quando sono nato mi avete trattato come un fenomeno da circo, mi avete nascosto alla vista del mondo, rinchiuso, escluso. Lo storpio che non poteva essere mostrato alla gente, l’essere che aveva strani poteri oscuri, il diavolo in persona. Non sono nato cattivo papà” sussurrò quasi piangendo “ma lo sono diventato, il male è l’unica cosa che mi ha dato la forza di sopravvivere, la mia mente è sana, è soprannaturale, ma il mio corpo è solo una prigione ed io voglio essere libero. Voglio andarmene, fosse anche l’inferno, sarebbe sempre meglio di questo” disse picchiando con forza sui braccioli della sua sedia a rotelle.
Lawrence si alzò, posò una mano sulla spalla del figlio:
“Tu sei mio figlio, ma ti ho sempre considerato la punizione per gli errori che ho commesso; ti chiedo perdono. Fai ciò che hai promesso e sarai libero, ed io con te”.     [ avanti » ]

di Vampire