E’ da tanto ormai che cammino su questa terra, ho molti ricordi che m'innondano la testa e forse è per rinchiuderli da qualche parte che ho deciso di scriverli qui, così sto cercando di catturare i miei sentimenti, sotto forma di simboli, su questi fogli di carta. Ma questi simboli non assomigliano per niente ai miei pensieri o ai sentimenti. In questi ultimi anni le poche persone che conosco mi chiamano Mikael…Mikael Sansker e forse tra i tanti nomi che mi sono stati affibbiati è l’unico che ho scelto personalmente…o quasi; Sono stato chiamato in così tanti modi che ormai non ricordo più neanche il mio vero nome: Vurdalak….Strigoi…Wendigo…ma nessuno di questi mi appartiene, si reggono su fondamenta costruite con ignoranza, superstizione e molta paura. Ma adesso basta divagare, mi trovo qui sotto il lago del cielo in una notte come tante e non voglio perdere tempo. Nacqui molto tempo fa da una famiglia povera: mio padre era un semplice cacciatore e di lui ricordo ancora come se fosse ieri le sue dita forti e piene di calli che tendevano l’arco con la stessa maestria con cui colpivano il viso di mia madre, potrei parlarvi di lei per giorni, di come solo lei riusciva a calmarmi e su come le sue braccia riuscissero a calmare i miei pianti dopo che venivo picchiato da mio padre, o quando mi costringeva a quelle terribili battute di caccia che secondo lui servivano a temprare la mente e lo spirito per diventare “veri uomini” come si definiva lui stesso. All’età di 19 anni ero alto 1,89 contro lo scarso metro e settantacinque di mio padre; naturalmente ero diventato più forte e più veloce di lui, ma forse non ero così diverso da lui…la ricordo come se fosse ieri quella notte: Era il compleanno di mio padre, mia madre gli aveva cucinato un cinghiale arrosto che io stesso avevo cacciato, il più grande che abbia mai visto, lui tornò a casa dalla taverna completamente ubriaco, si avvicinò al tavolo e rovesciò tutto per terra urlando e sbraitando che tutto quello era uno spreco; vidi chiaramente alla luce delle candele che il viso di mia madre si stava già rigando di lacrime, un viso così dolce e angelico che sarebbe stato in grado di fermare qualunque animale selvaggio, persino quelle antiche bestie mitologiche che si fermavano solo di fronte al nobile spirito di un eroe; ma mio padre era peggio di una bestia…si scagliò contro mia madre per l’incredibile spreco che aveva fatto, colpendola ripetutamente sul viso e prendendola a calci, sembrava non volersi fermare mai, sembrava volesse ucciderla…e forse ci sarebbe riuscito se sgranando all’improvviso gli occhi non si fosse girato a guardarmi, l’elsa della spada di famiglia (forse la cosa più preziosa che possedevamo in casa) che gli spuntava dalla schiena, mi guardava con uno sguardo misto di rabbia e stupore, poi il sangue cominciò a scorrergli dalla bocca e cadde per terra riverso…morto. Io, suo figlio, l’avevo ucciso, ero soddisfatto di me stesso, ero riuscito a ribellarmi al tiranno, ma appena guardai mia madre negli occhi caddi in ginocchio; era terrorizzata, mi fissava con lo stesso sguardo con cui guardava mio padre e io stesso mi vedi riflesso nei suoi occhi, e vidi mio padre, solo più giovane e alto. Non potevo resistere a lungo, mi sollevai, sfilai la spada dal corpo di mio padre e corsi via, senza neanche guardare mia madre per l’ultima volta, senza mai voltarmi indietro. Ero diventato come lui e non meritavo di rimanere di fianco a mia madre. Conosco già la domanda che vi passa per la testa, no, non ho mai più rivisto mia madre, cercai di farle avere qualche soldo che guadagnai, ma di questo vi parlerò più in là. Correvo per il bosco, avevo 20 anni ed ero spaventato, ma non per il luogo in cui mi trovavo, mio padre mi fece abituare a quel posto lasciandomi a 10 anni per 2 giorni in quella dannata macchia verde che circondava la mia casa; ormai poche cose al di fuori di me potevano spaventarmi, avevo paura di me stesso, di quello che ero diventato, o che credevo di essere diventato. Vagai per 3 giorni nella foresta, attratto dalle luci lontane della città. Giunsi a Parigi all’alba del quarto giorno, ero stremato e sporco e nessuna città ha pietà per un uomo ridotto in quelle condizioni. Durante una sola notte dovetti battere 5 briganti che attirati dalla mia spada volevano rapinarmi, così presi uno straccio e lo avvolsi intorno a “Pherenico”, questo era il nome della spada, mia madre mi raccontò che in greco voleva dire “portatore di vittoria”, ma mi sembrava solo portatore di sventure. Non so perché non me ne liberai subito, chiunque al mio posto l’avrebbe gettata nel primo corso d’acqua, lasciandola lì ad arrugginire…ma non potevo; forse era il mio ultimo gesto di rispetto verso mio padre. Provai ad arrangiarmi in molti modi e appena riuscì a fare abbastanza soldi per un pasto caldo mi recai verso una locanda. Il nome era « Les griffes du diable » e forse finii proprio tra i suoi artigli. Appena entrato automaticamente cercai con lo sguardo le vie di fuga più accessibili, era una fissazione che mi aveva insegnato mio padre, bisognava essere pronti sempre a tutto…mi avvicinai al bancone e chiesi all’oste un pasto. L’uomo era grosso, enorme, sarà stato alto due metri e pesante come minimo 200 chili, mi guardò subito con circospezione, ma appena gli feci vedere i soldi mi diede il benvenuto con un sorriso formato da una lunga fila di denti marci, mi allontanai col piatto e mi sedetti in fondo, il più vicino possibile alla porta sul retro. Mi sentivo finalmente al sicuro, ma appena finita la carne più schifosa che abbia mangiato (resa eccellente però dal digiuno) si avvicinarono a me 3 uomini, tutti sembravano benestanti dal modo di vestire, automaticamente allungai la mano verso la spada. Il più alto dei tre si avvicinò e con lo stesso alito che aveva mio padre quando tornava dalla locanda mi disse: “Non vogliamo straccioni come te qua dentro, il solo vederti ci fa passare la fame, vattene oppure…” e accompagnò le ultime parole con un gesto molto eloquente. Non cercavo problemi, chiedendo scusa mi alzai e me n'andai, ma sentii chiaramente uno di loro che alternando ogni 4 parole con un rutto disse: “Non possiamo lasciarlo andare semplicemente, altrimenti prima o poi tornerà!” ma non ci feci caso più di tanto e mi allontanai dalla locanda senza dare nell’occhio. Fuori la luna era stata oscurata dalle nubi e la visibilità in strada era ormai pessima, così girai in un vicolo per cercarmi un posto dove passare la notte. Appena svoltato l’angolo vidi un uomo in fondo al vicolo, era uno dei tre, aveva già sfoderato la spada e si stava avvicinando a me, nell’attimo in cui poggiai la mano sullo straccio che avvolgeva la spada sentì una fitta incredibile alla nuca e per qualche secondo non vidi più nulla, quando riacquistai parzialmente la vista mi accorsi di essere stato preso allo spalle dagli altri due, sentivo il sangue colarmi caldo dietro la testa, tutto si stava facendo confuso, sentii i tre discutere sul cosa farne di me, e quindi vidi che sfoderarono le lame capii che la mia vita stava per finire, chiusi gli occhi aspettando l’inevitabile, cercando di immaginare cosa si provasse a morire, quando sentì un rumore sordo, come di un rametto che viene spezzato, aprii gli occhi e vidi uno dei tre disteso di fianco a me, con il collo girato in un modo innaturale, gli altri si girarono di scatto verso la quinta figura che li aveva disturbati e che aveva ucciso il compagno con tale rapidità; era un uomo coperto completamente da un cappuccio, in un attimo vidi un lama nella mano dell’uomo, ma non riuscì a rimanere sveglio, mi addormentai sperando che quell’uomo fosse lì per salvarmi la vita e soprattutto che riuscisse a sconfiggere gli altri due con la stessa semplicità con cui aveva posto fine alla vita del loro amico. Ricordo ancora che sognai mia madre, stava pregando di fronte alla tomba di mio padre affinché mi proteggesse dall’alto, anche dopo tutto quello che gli avevo fatto…Mi alzai di scatto, mi trovavo in una stanza calda, arredata con un mobilio molto antico e particolare, sembrava provenire da terre molto lontane dalla nostra, vi erano maschere di mostri e demoni appese ai muri, spostai le coperte e feci per alzarmi quando sentii dei passi avvicinarsi alla porta, subito provai ad alzarmi ma mi presero subito delle forti vertigini e muovendo inconsapevolmente le mani verso la testa mi accorsi che ero stato bendato. La porta si aprì e vidi il mio salvatore, era lui, e su questo non avevo dubbi. Era un uomo sulla cinquantina, con una barba incolta e due ciocche di capelli bianchi ai lati della testa, aveva gli occhi di un marrone innaturale, sembrava ambra, era alto qualche cenimetro più di me, aveva il fisico tipico dello schermitore, agile ma muscoloso, quando aprì la bocca per parlare mostrò una fila di perfetti denti bianchi come perle: “Sei un ragazzo robusto, ti sei salvato, e quella non era una ferita da poco”. Aveva una voce molto suadente e calda, e io di risposta non riuscivo a dire nulla. Si sedette su una sedia che si trovava accanto alla porta e cominciò a fissarmi, non riuscivo a resistere a quel meticoloso studio, quegli occhi sembravano trapassare come lame tutto quello su cui si posavano; con un enorme sforzo riuscii a parlare: “Perché mi hai salvato?” per la prima volta sentii la mia voce tentennare e accorgermene non mi aiutò nel mantenermi calmo. “Perché non avrei dovuto? Quei tre sono…anzi, ERANO dei buoni a nulla, ti ho notato alla locanda e hai subito attirato la mia attenzione, soprattutto per quella stupenda spada che porti con te.” E solo in quel momento notai che Pherenico era appoggiata di fianco al mio letto, feci per parlare ma lui mi zittì con un cenno della mano: “Pensa a riposare, parleremo quando ti sentirai meglio” ed uscì dalla stanza.     [ avanti » ]

di Conte Drakul