L’occhio è spalancato. La pioggia ci cade dentro, riempiendolo di lacrime, che colano lungo le guance, nella bocca semiaperta e tra i capelli corti del ragazzo. Le lacrime si mescolano col sangue, allungandolo come fosse vino e togliendo profondità al suo colore. L’altro occhio non c’è più, al suo posto resta l’orbita cava e sanguinante.
A poca distanza dal cadavere, la creatura si sta nutrendo.

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Attimi, come ricordi, tornavano dal passato alla sua mente: fotografie di un tempo trascorso, scivolato via per sempre; acqua rovesciata da un vaso vuoto.
-Abbiamo qualcosa in sospeso, io e te.-, aveva detto lei.
E lui per un attimo avrebbe voluto andarsene da quella strada di periferia, coi muri delle fabbriche coperti di graffiti colorati e disegni osceni. Forse era colpa del suo atteggiamento così disinvolto, oppure l’impressione che baciarla non fosse la cosa giusta da fare.
-Allora risolviamola.-, aveva risposto.
-Devi essere tu a farlo.-
E così l’aveva baciata, prima con le labbra e poi con la lingua. Era stato un gesto meccanico ed era durato poco.
-Non è tanto difficile.-, aveva sorriso lei.
-No.-
Si erano guardati per un attimo, in silenzio.
-Sto aspettando.-, aveva detto lei, delusa.
Lui l’aveva baciata di nuovo, perché era quello che lei si aspettava che facesse.
Aveva cercato di metterci passione, ma era riuscito a sentire solo il rumore che facevano le loro bocche. Quando si erano staccati, lui aveva avviato il motore dell’auto, senza guardarla.
-Ti porto a casa.-, aveva detto.
E aveva pensato che non l’avrebbe rivista. Ma si sbagliava.

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L’aveva incrociata sotto casa sua, insieme a due amiche; non facevano che ridacchiare tra loro.
-Allora sei viva.-, l’aveva salutata, sorridendo.
-Sono sempre qua.-
Si erano messi a chiacchierare, finché la madre di lei si era affacciata al balcone per chiamarla, dicendole di salire, che era ora di cena.
-Fatti vedere, ogni tanto.-
E, di nuovo, aveva creduto di non rivederla.

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-Non è piaciuto a nessuno dei due.-, aveva detto lui.
E lei aveva scosso la testa.
-Forse abbiamo sbagliato il modo. Certe cose dovrebbero venire naturali. A me non era mai capitato.-
-Neanche a me.-, aveva mentito lei.
Poi avevano parlato d’altro, seduti sulla panchina del parco: niente di cui si sarebbe ricordato, ma abbastanza per rendersi conto di stare bene con lei, dopo tutto.
-Che fai nel pomeriggio?-, le aveva chiesto.
-Niente.-
-Ci vediamo?-
-Va bene.-, aveva sorriso lei.
Si erano salutati con un bacio da amici, sulla guancia: forse, in fondo, si sarebbero rivisti.

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Avevano comprato lattine di birra e pop corn. Bevevano appoggiati al cofano dell’auto di lui. Lei giocava a lanciare i pop corn in aria e prenderli al volo con la bocca; ci riusciva quasi sempre.
Guardandola, lui aveva riso.
-Perché ridi?-
-Perché sei una bambina.-
Lo aveva fissato per un lungo attimo, seria, poi aveva ricambiato il sorriso e ripreso quel gioco infantile. Per la prima volta, lui, senza sapere che un giorno avrebbe dovuto fare a meno di lei, aveva sentito di volerle bene. Aveva buttato giù quella sensazione con un sorso di birra, sotto il cielo azzurro di luglio.

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Un pomeriggio, a casa di amici, lei aveva tirato fuori una sigaretta, se l’era infilata tra le labbra e si era messa a frugare nelle tasche dei jeans, cercando l’accendino.
-Perché fumi? Ti fa male, non mi piace.-
Lei aveva scrollato le spalle, come a dire che non le interessava. Infastidito, lui le aveva tolto di mano l’accendino, costringendola ad alzarsi dal divano su cui erano seduti e ad accendersi la sigaretta con la fiamma del gas della cucina.
-Brava.-, le aveva detto, ironico.
-Grazie.-, aveva risposto lei, tirando una lunga boccata e soffiandogli il fumo in faccia.
Avevano iniziato a fare la lotta, giocando come ragazzini, e lui era riuscito a immobilizzarla. Aveva cercato di toglierle la sigaretta che stringeva tra le labbra e ci era quasi riuscito.
-Lascia.-
-No.-
Lo aveva morso, affondandogli i denti nel braccio, poco sotto la spalla. Il dolore era stato intenso e lui l’aveva lasciata andare subito, mollando la presa con rabbia.
-Cazzo! Mi hai fatto uscire sangue.-
-Scusa.-
Sembrava dispiaciuta, come se non fosse riuscita a controllarsi. L’aveva aiutato a disinfettarsi e a mettere un cerotto sulla ferita leggera, l’impronta della chiostra dei suoi denti. Aveva buttato la sigaretta e si era scusata ancora, così alla fine lui le aveva detto che non era niente, che non importava. Ma il segno gli era rimasto a lungo ed erano state notti insonni, occhi rossi e denti aguzzi, dopo il morso.

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Mentre passeggiavano abbracciati, lei gli aveva preso lo smartphone e aveva mosso veloci le dita sullo schermo. A volte mandava messaggi a sua madre, usando il suo numero, e lui la lasciava fare; così, non le aveva chiesto niente. L’aveva accompagnata a casa e l’aveva salutata col solito bacio sulla guancia.
-Ci vediamo domani.-
-Sì, ciao.-
Allontanandosi, aveva dato un’occhiata allo schermo dello smartphone e leggendo il messaggio che gli aveva lasciato, “TI AMO”, aveva sorriso. Erano le stesse notti, gli stessi occhi e gli stessi denti, che li avvicinavano un giorno dopo l’altro: due di una sola specie.

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-Mi piace.-, aveva detto lei.
Lui aveva seguito con lo sguardo il ragazzo che camminava nel parco: alto, magro, i capelli corti. Indossava pantaloni sdruciti e una maglietta nera con una scritta bianca sul petto. Non aveva commentato, perché lei lo stava abbracciando e sentirla vicina lo tranquillizzava. Forse stava solo cercando di farlo ingelosire.
-Mi piace.-, aveva ripetuto lei, più tardi.
Lui si era incupito e non le aveva rivolto la parola per tutta la sera. Poi aveva alzato gli occhi al cielo e aveva visto la luna piena: niente sarebbe più stato come prima.

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Era stato l’istinto, il suo nuovo istinto da predatore, a portarlo al parco dopo il tramonto. C’era un’aria strana, le nuvole si radunavano in cielo. Sentiva l’odore del sangue, che si muoveva nei corpi di quegli uomini e quelle donne. Così vivi. Così diversi da lui.
Si era seduto al tavolino di un bar e aveva ordinato una birra. Aveva osservato la gente passare, in attesa di lei. Ne aveva bisogno, la voleva: era la sola a condividere la sua natura. Lo aveva reso quel che era e per questo non avrebbe mai dovuto lasciarlo solo, come stava facendo in quel momento. Fingere di non essere cambiato diventava sempre più difficile e si chiedeva come lei ci riuscisse. Forse nei maschi il contagio aveva effetti peggiori.
Era arrivata. Teneva per mano il ragazzo alto e magro, quello che le piaceva. Sorrideva. L’aveva salutato da lontano con la mano e si era avvicinata a lui per dargli quel bacio sulla guancia che ora sapeva di cose che non durano, che si sciolgono e disfano.
-No.-, le aveva sussurrato.
Lei lo aveva guardato negli occhi. Un velo rosso ne colorava la sclera, come una forte congiuntivite. Quando aveva dischiuso le labbra, i suoi denti avevano mostrato un biancore innaturale, quasi fossero appena spuntati dalla gengive.
-Mi piace.-, aveva sorriso lei.
Se n’era andata, mentre cadevano le prime gocce di pioggia. La luna non serviva più.

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Aveva aspettato sotto il cavalcavia. Era rimasto accovacciato come un’animale, in attesa della sua preda, nascosto nel buio, a un passo dalla pioggia che cadeva incessante, raffreddando l’aria. Aveva sentito la trasformazione del suo corpo seguire il ciclo della circolazione del sangue e farsi completa.
Poi il ragazzo alto e magro era arrivato.

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La creatura si piega sul cadavere e affonda il muso nella carne. Con uno strappo violento, il bicipite si stacca dal braccio e resta per un attimo a penzolare tra le zanne. Un lampo rischiara la scena: del ragazzo non rimane molto e il sangue è ovunque, nonostante la pioggia che lava l’asfalto.
Accompagnata dal fragore del tuono, la creatura si allontana nel buio.


di Enrico Graglia