La densa atmosfera della casa di Alberto Canova era il preludio di un incontro che lo avrebbe riportato ad uno stato infantile, né uomo né bambino. Solo quella vaga inquietudine di quando si perde l’innocenza smarrendosi nel tunnel della vana gloria.
Faceva l’amore con Adelaide Carmila, la sua compagna, ed ogni oggetto della camera sembrava animarsi al ritmo dei loro battiti cardiaci.
Fuori, nel manto nero della notte, un gufo comune con i ciuffi sulle orecchie osservava l’amplesso di proposito, appoggiato su un ramo, di fronte alla finestra.
L’umidità saliva ad una certa ora e la casa di Alberto tutta si riscaldava automaticamente, come una delle abitazioni più moderne, mentre l’orologio a cucù batteva le ore in sintonia con le occhiate repentine del volatile che una volta aperta la finestra da Adelaide, svolazzava via incauto.
Era la mezzanotte quando Alberto rimembrò della lettera di Stanislav Lee, dopo tanti anni il suo amico d’infanzia si era fatto vivo, la curiosità di scoprire di cosa aveva bisogno, era particolarmente forte.
Prese un piccolo coltello, strappò la lettera, tolse il foglio dalla busta ed iniziò a leggere: “Mio caro Alberto, gli anni corrono via come il vento che passa forte e se ne va lasciando il segno, io non mi sono dimenticato di te, anche se le mie condizioni di salute non mi permettono di gioire. La poesia, come ben sai, non è il mio forte, così mi lascio andare ad una sorta di preghiera, se potessimo concludere quell’affare, poiché grande è il dolore che contiene il mio corpo, sono malato e mi restano pochi giorni da vivere, ti sarei grato, se potessi trascorrerli in serenità accanto a te. Vivo sempre nella stessa villa, sai dove trovarmi, la situazione sta degenerando, non ho nessuno che mi accudisca, il tuo sarebbe un gesto che conserverei in memoria anche nell’aldilà. Tuo ricordo, Stan”.
Il sapore melanconico di quelle parole fecero preoccupare Alberto che iniziò immediatamente a preparare la valigia per far fronte a questa spiacevole incombenza.
Adelaide, se ne stava lì, accucciata in un angolo della camera a guardarlo andare via, senza aprire bocca.
Il suo sguardo, raggelante, nascondeva un velo di tristezza che ben mascherava il disagio di chi vede andare via la propria metà, senza saperne la motivazione.
Si ricordava della lettera di Stan, del suo stato cagionevole, in ogni caso avrebbe saputo dove andarlo a trovare, semmai ce ne fosse stato bisogno.
La luna era candida, di un chiarore luttuoso, emaciata.
Alberto passeggiava frettolosamente guardando per un ultima volta la propria casa.
Si trovava in una zona residenziale della città di Bolzano e viveva lì da quasi dieci anni.
Chiamò un taxi a quell’ora, l’una di notte. Sarebbe arrivato in un’ora nella villa di Stan, in prossimità di Merano.
Quando arrivò il taxi, una pioggerellina fine scendeva dal cielo.
Alberto si era portato con sé un cappotto nero alla Sherlock Holmes, aveva anche lui i baffi lunghi, e gli mancava soltanto la pipa, ma portava con sé sempre una scatola di buoni sigari Ashton.
Il silenzio assoluto nell’abitacolo era figlio della tensione interna di Alberto che sentiva quasi un peso nei confronti del suo amico, non era del tutto convinto di quello che stava facendo ma sentiva in ogni modo che doveva andare.
Nel tragitto, fra le montagne ed il lago fino alla campagna in provincia di Brunico, Alberto ripensava ad alcuni comportamenti strani che il suo amico aveva sin da bambino.
Stanislav aveva improvvisi eccessi d’ira e talvolta picchiava anche le ragazzine per poi pentirsene, nessun genitore voleva che lui frequentasse le loro figlie, poi si lavava poco, quando si doveva mangiare non lavava mai le mani ed era spesso silenzioso, parlava solo con il suo amico fraterno Alberto, e sempre quando andavano al fiume per la consueta passeggiata.
Quando, dopo aver attraversato la fitta vegetazione cresciuta rigogliosamente nei dintorni dell’abitazione di Stan, Alberto, una volta sceso dal taxi, si trovava di fronte alla maestosa villa, ebbe un flash non premeditato: un incidente accaduto ad Adelaide che capitò un pomeriggio proprio lì a due passi da dove si trovava in quel momento Alberto. Era pomeriggio inoltrato e giocavano a nascondino con i grandi cipressi del vialone che costeggiava il fiume. Era giunto il turno di Alberto, e dopo la conta, Stanislav e Adelaide si erano dileguati.
Alberto li cercò per più di un’ora per poi ritrovare Stanislav che tentava di pulirsi il sangue con l’acqua del fiume. Alberto chiese di Adelaide che trovò di lì a pochi minuti, in uno stato confusionale.
Stanislav piangeva tremante, diceva che non si rendeva conto di quello che era accaduto, ma nessuno era in grado di confessare cosa veramente fosse accaduto in quel pomeriggio di luglio dell’anno 1982. Ed ora, dopo venticinque anni, eccoli di nuovo lì, uno di fronte all’altro, per chiarire una volta per tutte.
Il lungo vialone della villa sembrava più spazioso dall’ultima volta, quello che mancava era però la cura per le piante che si erano rinsecchite, nessuno le dava più l’acqua, e quasi tutte le foglie erano cadute a terra, fradice di pioggia e cosparse di fanghiglia.
Il portone suonò per due volte da solo all’avvicinarsi di Alberto, poi si aprì lentamente contemporaneamente al terzo suono. Subito un calore accomodante procurarono del piacere ad Alberto che appena entrato nel grande soggiorno della villa, si tolse il cappotto.
Quando il portone si richiuse, Alberto si mise a scrutare ogni minimo particolare del salone.
Un fuoco esageratamente crepitante che si accendeva e si spegneva alternativamente come fosse una torcia elettrica, alcuni animali impagliati sulle pareti fra cui anche un cervo, un odore salmastro piuttosto fastidioso, tappeti giganti che coprivano l’intera stanza, finestra piccolissime con delle sbarre fine di metallo arrugginito, una tavola di legno di ciliegio, imbandita di frutta e di vino.
Poi la voce roca di Stan lo sollevò dalla momentanea ipnosi dell’ambiente.
Doveva attraversare un lungo corridoio buio, prima di arrivare alla stanza di Stan, tutte le porte con pregevoli arazzi in oro erano chiuse dall’interno, non uno spiraglio di luce giungeva nel mezzo del corridoio per accompagnare il passo esitante di Alberto.
Stan lo chiamava come poteva, aveva un filo di voce e non poteva sforzarsi più di tanto. Poi alla fine del corridoio, un sospiro di sollievo, la luce di una candela poggiata su un bancone che faceva un minimo di luce all’interno della sua stanza.
Alberto aprì la porta molto lentamente e non si spaventò affatto quando vide dopo tanto tempo il volto emaciato e smunto del suo vecchio amico Stanislav.
Lui raggomitolato nel letto gli faceva segno con il braccio destro che avrebbe potuto avvicinarsi, poiché non aveva alcuna malattia contagiosa. Poi un bacio sulla guancia ed una pacca sulla spalla, avrebbero fatto il resto.
Alberto non aveva la forza di sorridere, tant’è che Stan riusciva a stento a proferir parola.
In parole povere era invecchiato male, difatti non teneva una nutrizione appropriata per il proprio fisico sin da bambino.
Alberto lo guardava fingendo di ascoltarlo degli episodi degli ultimi tempi.
Stan era di un pallore mortale, un bianco cadaverico, e poi i suoi occhi, vitrei, assurdamente vispi quanto torbidi. Alberto trascorse le ore della notte, dormendo su una sedia accanto al suo letto.
Raccontava di una relazione avuta con una donna finita male, come la radice della sua malattia:
“La conobbi giù al fiume, era così bella, trascorsi con lei gli anni più belli della mia vita, poi qualcuno o qualcosa me la rapì con l’inganno, lei si sentì male per via di un piatto di pesce probabilmente andato a male, e da quel giorno ogni speranza di salvezza fu vana…”.
Nelle sue parole c’era un sapore amaro, c’era del vittimismo, come se lui stesso fosse stato artefice di quello che era accaduto a Stella, la sua ex compagna.
Si agitava, si alzava dal letto, tossiva e sputava sangue a terra, dall’altra parte del letto, sul parquet c’erano innumerevoli chiazze di sangue divenute marroni, considerato il fatto che ormai erano giorni che passava in quelle condizioni.
Non si sentiva a suo agio e durante la notte, Alberto, sentiva quasi il presentimento di non essere solo, come se qualcuno tentasse di entrare a passi felpati nella stanza per dare il colpo di grazia ad un uomo già ridotto ad uno stato comatoso. E mentre fuori iniziava a cadere la neve, era giunta l’ora del lupo, quella in cui tutti gli incubi vengono a galla.
Alberto non riusciva a prendere sonno e così lasciava alcuni minuti il suo amico nel letto a riposare, per passeggiare lungo il corridoio con la candela fra le mani.
Ululati lontani di alcuni lupi echeggiavano fin dentro la villa, alcuni rumori di passi si sentivano oltre la parete, e il fuoco si accendeva e si spegneva continuamente.
Quando Alberto decise di tornare nella stanza, gli cadde la candela dalle mani scottandole le dita dei piedi, così emise un urlo che svegliò Stan.
Alberto pulì immediatamente il pavimento della cera caduta e tornò indietro frettolosamente.
La voce di Stan era sempre più scura ed Alberto cercava di rincuorarlo ma un colpo di tosso improvviso finì per sporcarlo di sangue proprio sul viso, e in quel momento sentì per la prima volta da quando era in quella casa, il bisogno di reagire, ma contro o chi o cosa non se ne rendeva ancora conto.
Sentiva un bisogno di interno che non riusciva a soddisfare. Dopo l’alba avrebbe fatto ritorno a casa dall’amata Adelaide, ma poi tutto mutò quando Stan si spense di colpo fra le sue braccia. Aveva gli occhi sbarrati, Alberto tentò di rianimarlo ma non c’era niente da fare.
Il suo volto era come quello di un uomo che ha appena visto un fantasma.
Adagiò il corpo sul letto, coprendolo con la coperta fin sopra la testa e chiudendogli le palpebre degli occhi che facevano particolarmente impressione, dato che avevano preso il colore violaceo della putrefazione. Alberto, con un filo di commozione, attendeva solamente la luce del sole.
La porta della stanza poi si chiuse di colpo, a quel punto era evidente che una presenza invisibile era presente nella casa e che probabilmente aveva contribuito alla morte prematura di Stan. Alberto si alzò dalla sedia per cercare di forzare la porta e la serratura, ma era bloccata.
A quel punto qualcosa dietro di lui si mosse. Dall’interno del letto, i piedi di Stan alternativamente, si alzavano e si abbassavano, fino a far volare le coperte.
Quello che si presentò agli occhi di Alberto in quel momento era qualcosa di diabolico e inaudito, per la prima volta la natura di Stan gli era chiara, quella di un essere soprannaturale, un vampiro, un non morto.
Aveva architettato tutto per farlo tornare e quindi vendicarsi di lui e delle sue maldicenze sul fatto dell’incidente con Adelaide?.
Perché in fin dei conti era stato solo un incidente e non un tentativo di violenza come aveva voluto dimostrare Adelaide.
Ma in quel momento Alberto non aveva il tempo per pensare cosa era veramente successo quel lontano giorno e così cercò di difendersi come poteva dall’attacco di Stan. Saltò giù dal letto tentando di afferrargli con le braccia il collo, e i suoi denti aguzzi si avvicinavano sempre di più, ma non erano bianchi, bensì avevano i segni della decadenza totale di un uomo che probabilmente era già morto ancora prima di questa notte.
Alberto aveva preso un lungo bastone e fortunatamente la punta dell’oggetto divenuto arma, andò a conficcarsi proprio al centro del cuore dell’amico vampiro.
Fiotti di sangue sporcarono il letto e il pavimento, poi il primo raggio di sole giunse a spaccare la piccola finestra sopra il soffitto della stanza per ridurre lentamente in cenere il povero corpo di Stan. Alberto però si riparava, timoroso anche lui della luce e nel mentre, agghiaccianti risa tuonavano dai sotterranei della casa. Il sole, coperto dalle nuvole, sorgeva molto lentamente, mentre Alberto si accasciava in ginocchio di fronte alle ceneri di Stan che avevano preso la forma di un ammasso di legne pronte per il gran fuoco che lo aveva accolto una volta giunto nella casa.
Nel frattempo, Adelaide, non dormiva certo sonni tranquilli. Passeggiava nervosamente nella casa, di stanza in stanza, alla ricerca di una tranquillità che le consentisse di fare qualche ora di sonno. L’alba era vicina e non sapendo cosa fare, visibilmente preoccupata per le condizioni di Alberto, il suo amante, come se sapesse del pericolo cui andava incontro, si vestì in fretta e furia e chiamò anche lei il primo taxi. Erano le 4.50 in punto quando uscì dalla casa e coperta da capo a piedi di un pesante vestito nero, si apprestava a salire, non prima di aver visto svolazzare intorno alla casa il solito gufo comune.
Quel po’ di neve caduta si sarebbe sciolta con il primo sole ma camminare lungo il vialone fino alla casa di Stan, sentendo la neve scricchiolare sotto le scarpe, riportava Adelaide ad alcuni ricordi di bambina. La casa in campagna, il fiume ghiacciato, il richiamo della mamma, la neve mangiata con il limone.
La casa di Stan aveva un alone lugubre anche alle prime ore dell’alba. Il sole si stava facendo largo fra le nuvole grigie che avevano portato la neve. Adelaide, tremante dal freddo, riusciva ad entrare nella casa con una certa ostentata tranquillità.
Il camino era spento, non c’era legna all’interno. Segni di colluttazione sulle pareti, del carbone sparso per il pavimento, la tavola con la frutta marcia, e gli animali impagliati che avevano cambiato posizione, ad esempio la testa del cervo ora era voltata verso l’alto e nascondeva un ghigno malefico. Adelaide tentava di farsi largo fra le innumerevoli cianfrusaglie, ma non si curava affatto di chiamare Alberto. Cercava un riparo, una stanza dove mettersi al sicuro, dove non avvertisse la presenza di spiriti, e dove magari avrebbe ritrovato Alberto o Stan, ma di lui non c’erano più nemmeno i resti del corpo in cenere.
Toltasi il grande vestito nero, Adelaide cercava degli indizi lungo il corridoio che dava fino alle scale a chiocciola che scendevano fino ai sotterranei, ma non trovò nient’altro.
Osservava le scale dall’alto con una certa spavalderia, poi un pipistrello sbucare improvvisamente dal buio della scalinata, e dirigersi fuori, dove il portone semi-aperto aveva lasciato il giusto spiraglio per il passaggio dell’animale.
Fuori, era ormai il primo mattino. L’aria era piuttosto fredda.
Dall’altra parte del viale lungo la strada per arrivare alla casa di Stan, passeggiava una figura nera, stagliata contro il bianco della neve.
Barcollava, coperta da un mantello e un cappello di feltro.
Chiedeva l’autostop ai passanti che con le loro macchine acceleravano di più per evitare soltanto di guardare chi fosse la persona che chiedeva aiuto.
Tremava, e sotto le vesti, si nascondeva il gracile corpo di Alberto, sopravvissuto alla sciagura.
Ma non c’era altro tempo. Anche lui, come Stan, soffriva la stessa terribile malattia.
Aveva tentato di nascondere tutto nel corso degli anni, ma anche lui fu autore di alcuni omicidi accaduti nella città di Bolzano, nel corso degli anni della loro adolescenza.
Non c’era tempo, il sole si faceva sempre più forte e coraggioso nell’esporre i propri raggi. Alberto, ripensò per un attimo ad Adelaide, poi di colpo una nuvola di fumo restò di lui, niente di più. Il lungo mantello cadde a terra, lungo la strada innevata, dove un camion rimorchio vi passò sopra trucidando quel che era rimasto di lui.
Adelaide, nel frattempo, se ne stava seduta nel castello. Il luogo si animò di luce propria, gli animali imbalsamati emisero gridolini strozzati di dolore, le porte si mossero, il vento sferzò fino alle porte, facendo scricchiolare le assi.
Poi, una volta che il sole se ne tornò da dove era venuto, grandi tende color porpora scendevano a coprire, sempre alla stessa ora, le minuscole finestre.
Un’atmosfera lugubre ricopriva l’intero edificio.
Nei sotterranei ticchettii e passi veloci, squittii di topi, e altri strani rumori invadevano sempre di più la casa.
La casa era viva. Adelaide non sarebbe rimasta sola.
Tutto il luogo pareva animarsi di vita propria.
Gli alberi del vialone assumevano strane forme.
Alcune statue del giardino prendevano vita per cercare anche loro un posto dove stare, lontano dalle intemperie invernali.
Il grande portone si apriva per accogliere tutto quello che poteva esser utile.
Tutto il calore degli oggetti mancanti, e delle anime perdute.
Adelaide che se ne stava seduta con lo sguardo rivolto verso fuori, verso i paesaggi circostanti devastati dalla neve che improvvisamente, giù nelle vallate tornano prati in fiore.
Lei, Stanislav e Alberto, stretti in un cerchio, con le mani racchiuse in un pugno.
Un punto d’incontro da cui riuscire ad essere padroni del proprio destino.
Il sodalizio è suggellato.
Adelaide va a vivere nel castello per chiudere il cerchio e vivere in pace in eterno, lontano da una rivalità maschile che non le ha dato tregua.
Le imposte delle finestre si chiudono.
Nella casa ora regna il buio e Adelaide ne è la regina, fra le risate degli spiriti che la popolano.

10 anni dopo:
Un arzillo vecchietto arriva di fronte alla casa, su cui fuori è affisso un cartello con su scritto VENDESI, ed attende che una famiglia con marito, moglie, e tre figli, due maschi e una femmina, arrivi per visitare la villa.
Il vecchietto ride, prima d’invitare a visitare la vecchia abitazione da ristrutturare, la famiglia.
Fosse consapevole di quel che gli spetta?. Da fuori, la casa conserva un’aria minacciosa.

In un posto imprecisato, lungo una vallata dove in mezzo scorre un fiume, corrono alcuni bambini, e lentamente scorgiamo le figure di Alberto, Stan e Adelaide.
I tre dopo una lunga corsa, si tramutano in piccoli pipistrelli e volano sopra il loro amato fiume.


di Federico Mattioni