Molto tempo fa. Agli inizi della mia inerte vita, sentii parlare di un bimbo. Proprio nella valle di Sirangel, un luogo vasto, quasi irreale, dotato di cieli impetuosi, scuri e spesso minacciosi.
Quel giorno, Annabelle, tornando dalle sue letture pomeridiane non si recò subito a casa, visto il forte vento, ebbe voglia di fare una passeggiata nella valle oscura, perché quando il tempo è così agitato quel luogo sembra pervaso da forze mistiche: un dipinto della natura sulla tela delle sue creature.
Salita oltre la collina, si inoltrò tra gli alberi, no, non aveva nessun timore, conosceva ogni passo, ogni ramo di quel posto, fin da quando era fanciulla percorreva i suoi sentieri, attratta da un paesaggio speciale e ambiguo quale esso era. Si fermò nel punto più alto e si stese. I fili d’erba le sfioravano il viso e le nude mani: chiuse gli occhi. Il forte vento le scombinava i lunghi capelli che parevano ancor più rossicci e crespi, sembrava le piacesse.
Lentamente il cielo si ritirò. Un freddo lieve scosse ogni cosa: piante, alberi, terra, per la prima volta avvertiva qualcosa di temibile. Sentì un gemito provenire da lontano: aprì gli occhi sbarrandoli “ Un bambino… “ si disse, alzandosi da terra, si guardò attorno, c’era solo terra, erba e grossi alberi, nient’altro. Il gemito continuava, ed era sempre più chiara la direzione della sua provenienza.
Si avvicinò ad un grande cipresso, si appoggiò al tronco ma… non c’era nulla, abbassò gli occhi e vide con sua grande sorpresa un bimbo, appena nato, avvolto in vesti bianche. Incuriosita e preoccupata lo prese e il vento cessò d’incanto.
Fece di tutto per nascondersi agli occhi dei passanti lungo la strada per casa e, arrivata a destinazione aprì la porta, entrò con fare frettoloso sbattendo l’uscio.
“Gladys! Ehi, Gladys! Non crederai mai cosa hanno abbandonato nella valle!” gridò la ragazza alla sorella. Abitavano da sole da quattro, cinque anni poiché i genitori morirono
in un incendio. Gladys, la prima figlia, faceva l’insegnante giù in città e la sorella più giovane si occupava delle faccende di casa. Raggiunta Annabelle e vista la creatura che portava tra le braccia, la sorella maggiore sussultò
e con aria pietrificata guardò Annabelle: “E questo bambino da dove viene? E… soprattutto, cosa ci fa nelle tue mani?” Si avvicinò e con un sorriso celato lo prese in braccio, era tranquillo.
Annabelle raccontò ogni cosa alla sorella, aveva paura che non glielo avrebbe fatto tenere ed ogni giorno che passava la implorava, fino a quando Gladys cedette.
E fu proprio lei che alzandolo con le braccia al cielo, un giorno, disse: “Lo chiameremo.. Mhaverid”.
Era notte. Il sole si era spento nell'orizzonte già da molto tempo, fuori c'erano solo rumori nascosti e ripetuti, coperti dal buio degli alberi.
Da alcune ore, era in quella piccola culla, protetto da una coperta e da un angolo di luce che traboccava da uno spacco nella finestra. La porta della stanza lottava contro il vento e, a parte ciò il silenzio della casa dominava su ogni cosa ed Annabelle spesso rinunciava a dormire per passare gran parte della notte ad osservare la piccola creatura.
Col tempo il bimbo crebbe, aveva capelli neri portati abitualmente corti, uno sguardo misterioso negli occhi scurissimi, quasi nascosti nella fronte. Gli fu insegnata la legge di quel tempo, la dottrina del bene, la vita, prese da Annabelle la finezza e la sua empatia verso la natura.
La sua adolescenza fu un continuo cercare negli atri della consapevolezza il proprio destino. Mhaverid spesso evitava gli altri ragazzi e le loro abitudini, a lui piaceva leggere
indisturbato nei campi, tra gli alberi, libri di magia, storie antiche di tempi lontani. Non aveva nulla da capire, ma solo da vivere, oh quante notti passava solitario sul tetto di casa
delle sorelle, una volta, osservando la foresta lontana ed inquietante si chiese: “E’ possibile mai che non esistano oltre questi villaggi, terre popolate da altre creature? L’immortalità è davvero meta irraggiungibile per l’uomo?” In quello stesso istante un urlo agghiacciante squarciò la notte, in lontananza, sottile come un eco “Cos’è stato?” sussurrò il ragazzo tra sé e sé, scrutando con gli occhi il buio distante della foresta “…qualche bestia notturna” si rispose, e abbandonando il luogo, scese nella sua stanza.
Venne l’indomani con il suo sole imponente e cieco, c’era festa giù nel borgo e tutti si dirigevano nella piccola piazza. Mhaverid andò insieme alle sue sorelle, come era di loro consuetudine fare quando vi era festa, e spesso finiva per annoiarsi, ma comunque andò.
Lungo la strada Gladys, rivolgendosi al ragazzo disse: “Mhaverid, mi raccomando, non ho intenzione di fare una pessima figura con i marchesi Dureverth per colpa delle tue solite maniere di ignorante… hai capito? Noi siamo quello che resta di una famiglia rispettabile, i nostri genitori erano dei signori sia nei fatti che nei modi, quindi bada a te, ragazzo”. Da quando Mhaverid non era più un bambino Gladys lo trattava spesso come se fosse un estraneo, unicamente perché nelle sue vene non scorreva sangue di famiglia. “Lascialo stare…” le ribatté, nel suo stesso tono, Annabelle, “…conosce i suoi doveri”. Mhaverid intanto aveva allungato il passo e appena arrivò si sedette di spalle a un muretto, vide a terra un elastico, lo raccolse e iniziò a maneggiarlo con le mani, un gioco stupido per passare il tempo. Ad un certo punto sentì una voce femminile dietro di lui domandargli: “Posso provare anch’io?” – era una fanciulla dai lunghi capelli neri e dagli occhi celesti, di gentile aspetto, a vederla, Mhaverid rimase
quasi incantato e, senza distogliere lo sguardo da lei le porse il laccio – “Sei di qui? Non ti ho mai vista.”
– Tu, dove abiti?
– A pochi passi dalla foresta.
– Io qui vicino, sono arrivata da poco e durante queste feste proprio non so dove
sbattere il muso.
– Come ti chiami?
“Leyla, e sono la notte che divora i tuoi pensieri!” – disse, cominciando a ridere e, poi con aria seria chiese al ragazzo “Come ti chiami invece, tu? Hai l’aria di chi sa il fatto suo”, “Mhaverid… il mio nome è Mhaverid” – rispose guardando l’orizzonte – “Ciao, Mhaverid, ti verrò a trovare” continuò, la ragazza andando via.
Inutile dire che in tutta la mattinata non fece altro che pensare alla nuova arrivata, aveva ancora in mente il suo sguardo e… il suo sorriso strano. Quella sera, mentre stava seduto nella scrivania vicino la finestra della sua stanza, gli capitò di fermare qualche attimo gli occhi ai vetri, scorgendo la luna, si disse: “E’ il giorno che muore nella notte, senza pietà, senza respiro lo divora. Sembra quasi una battaglia senza tempo, un duello sanguinario in cui nessuno dei due sfidanti è capace di arrendersi, e dove l’uno muore nelle braccia dell’altro. E per chi è come me, che ha dentro notte e giorno, tenebre e luce, sangue su sangue, quale tregua potrà mai assaporare?”.
Passarono giorni ma Leyla non si fece viva, allora armato di volontà Mhaverid uscì per andarla a cercare. Scese lungo il viale, dirigendosi là dove gli aveva detto la fanciulla, avanzò verso i campi ma al di là degli alberi trovò solo una casa, disabitata… “Chi c’è!” – urlò di colpo una voce maschile, anziana – “Sto cercando una famiglia che è qui da poco, ha visto per caso… una ragazza?” chiese Mhaverid con voce spessa, mentre il contadino usciva dalla sua abitazione – “Cosa stai farneticando, ragazzo? Sono anni che vivo in questo posto, oltre me, qui non c’è nessuno.” rispose l’anziano signore, e avvicinandosi continuò – “Se si fosse trasferito qualcuno me ne sarei accorto”. Allibito, il ragazzo si guardò intorno, era tutto deserto. Ringraziò l’uomo e tornò a casa.
Chi era quella ragazza? Gli frullava in testa solo questa domanda. Tutto questo mistero non faceva altro che aumentare la sua curiosità, chiese anche ad Annabelle, ma non gli seppe dir nulla a riguardo.
Cominciò a passare sempre più tempo sul tetto, sempre più notti, i suoi occhi scrutavano l’oscurità della foresta, gli alberi, il cielo in cerca di una risposta, ma non la trovò.. fino a quando non accadde qualcosa. Una notte. Fece un incubo. Sognò di essersi perso nei boschi vicino casa, non riusciva più a trovare l’uscita e attorno a lui, tra i cespugli, dietro ogni cosa si alzava un lamento, più acuto del verso di lupo, più alto di qualsiasi urla e d’improvviso ogni cosa gli girava attorno, le grida erano troppo forti, appena mise le mani alle orecchie si svegliò, piegandosi, seduto.
Guardò innanzi e sussultò vedendo una donna ai piedi del suo letto: ritta davanti a lui, aveva un mantello del colore simile a quello della notte inoltrata, nascondeva il viso tra le braccia... a vederla bene aveva qualcosa di familiare… “Leyla! Sei tu? Come sei entrata?!” – parlò il ragazzo, spaventato, mentre ella si avvicinava piano. Si guardarono intensamente fino a quando lei sussurrò – “Mhaverid, nelle mie notti solitarie… mi ero chiesta se mai ci fosse un’anima che cercasse nel buio il proprio destino, ed i tuoi pensieri da quel momento invasero la mia mente, come qualcosa a cui non puoi fare a meno di pensare, come echi che senti risuonare nella testa senza sosta, allora… decisi di conoscerti. In questo istante, io, ti darò ciò che la tua mente ha sempre cercato in tutte le notti, scrutando con gli occhi il cielo scuro steso su di te. Tu lo vuoi, vero? Sai perché sono qui. Il tuo cuore ne è cosciente”. Era vero, lo desiderava, ma da una parte aveva paura, aveva timore di non poter tornare più indietro.
La ragazza non attese risposta, aprì le braccia, si lanciò sulla sua preda e avvolgendola nel suo mantello iniziò il rituale.
Passò… quella notte, che fece di un uomo un vampiro.
Imparò a vedere negli occhi terrificanti di Leyla qualcosa di docile... vedeva in lei una fragilità strana… triste, come di chi è condannato ad essere ombra, eppure quante vittime caddero innocenti tra le sue mani. Mhaverid lasciò la casa delle sorelle, abbandonò il vuoto della sua stanza, scrivendo un ultimo biglietto alla donna che l’aveva trovato in fasce.

Oh Annabelle,
per me sei stata come una vera sorella,
ragioni, di cui dirti non posso,
mi costringono a lasciare questa casa,
ma è ciò che devo,
una parte di me attendeva nell’ombra questo giorno,
era destino,
non tornerò mai più…
non oltre i limiti della valle di Sirangel,
ti ricorderò sempre.

Mhaverid

La foresta lo accolse, nelle sue notti buie, fino a quando non decise di partire alla ricerca di altri luoghi oscuri, al di là dei monti Aboc, dove vide crescere la sua sapienza di anno in anno, di secolo in secolo.. fino al giorno in cui arrivò all’entrata del Regno di Dorgak. Questo è ciò che successe.
Questo, ciò che è scritto. Nessuno sa cosa avvenne al di là della soglia di questo luogo, di certo è conosciuto il nome di Mhaverid nella cerchia dei vampiri, egli rappresentò il
predatore, il maestro, l’interprete della notte, colui che possedeva il potere della grande forza mistica e quello di governare le menti, c’è chi pensa ch’egli sia ancora in quelle terre maledette, alleato di anime perdute come lui, chiuse nell’oscurità della loro natura, e c’è chi è convinto che tutto ciò sia frutto e fantasia della gente. Ogni vita ha un enigma, ogni morte la sua rivelazione. Chissà, forse in una di queste notti… cambieranno idea.


autore                                    
Daniele Marino