[ « indietro ]     Decise che per quella sera poteva andare a letto senza prendersi il disturbo di mangiare e lasciò sul tavolo la carne ai ferri con l’insalata che aveva cucinato poco prima.
La notte trascorse serena, per la prima volta da molti mesi non ebbe problemi ad addormentarsi, si destò ristorata, ma ciò che vide le strappò un grido.
La tavola era ancora apparecchiata esattamente come la sera precedente, ma le posate erano sporche ed incrociate al centro del piatto, la carne era sparita e dell’insalata restavano solo poche foglioline che galleggiavano nell’olio del piatto.
“Oh mio Dio” sussurrò.
Istintivamente si avvicinò al ritratto, e, naturalmente, non vide nulla di mutato.
“Che mi succede” sussurrò “sonnambulismo?” chiese alla casa vuota.
Non poteva esserci altra spiegazione, doveva essersi destata in piena notte e aver consumato il pasto in uno stato d’incoscienza.
Certo una cosa del genere non le era mai capitata, ma un episodio dettato dalla stanchezza o dall’eccessiva tensione nervosa poteva essere giustificabile.
Un’occhiata furtiva all’orologio la informò che era in ritardo.
Si vestì in fretta, raccolse i capelli in un precario chignon, inforcò un paio d’occhiali da sole e raggiunse la porta di casa.
Si guardò un attimo alle spalle e disse:
“Ci vediamo stasera”.
“Ti auguro una buona giornata tesoro”.
Gridò.
Si voltò di scatto e lo vide.
L’uomo del ritratto si era voltato dalla sua parte e con lo stesso meraviglioso sorriso la salutava con un leggero cenno della mano.
Chiuse la porta alle sue spalle e s’ irrigidì contro la porta.
“Sto impazzendo”.
Doveva rientrare nell’appartamento ed affrontarlo.
No,doveva andare di corsa ad un buon ambulatorio psichiatrico.
No, doveva andare al lavoro, quando sarebbe tornata avrebbe gettato il quadro nell’immondizia, così nessun baldo giovane d’altri tempi le avrebbe rivolto il saluto ammiccante da dentro una cornice d’ebano.




La giornata volò via troppo in fretta, l’orologio contro il muro sembrava impazzito:le lancette non avevano smesso un solo attimo di rincorrersi, mettendola di fronte alla sconcertante verità del suo imminente rientro in casa.
Alle otto e venti era impietrita dinnanzi all’uscio del monolocale, le chiavi strette nella mano destra e lo stomaco serrato in una morsa d’acciaio.
Entrò.
La stanza era ben illuminata, il lampadario era acceso, ricordava di averlo spento mentre si accingeva ad uscire.
Si portò davanti al quadro e fissò Edgar con aria perplessa ed indagatrice.
“Allora” quasi gridò “non hai nulla da dirmi?”, il tono isterico e fremente della sua voce la fece ulteriormente innervosire.
Edgar si voltò nella sua direzione, allungò una mano e le accarezzò il volto.
Mel svenne.
Si riebbe qualche istante dopo, si issò a fatica dal pavimento massaggiandosi il fondo schiena indolenzito.
“Spero che non ti sia fatta male” l’apostrofò il quadro con ironia.
Mel si sedette sulla sedia accanto al tavolo, le gambe le tremavano all’unisono con le mani e la voce sembrava non aver alcuna intenzione di sgorgarle dalle labbra.
“Sono io” continuò il dipinto “Edgar, l’uomo con il quale ti stavi confidando ieri sera, non mi vorrai far credere di avere veramente paura di me?”.
Il colore ad olio si increspava attorno alle labbra del giovane, l’immagine in movimento era assurdamente priva di profondità, piana ,ma le trasmetteva un singolare senso di pace.
“Non è possibile”.
“La vita riserva sorprese meravigliose”.
“Tu sei vivo” terminò la frase con un singhiozzo.
“No, per l’esattezza sono morto quasi duecento anni fa, giorno più giorno meno.Non sono neppure propriamente un fantasma, se è questo che stai pensando, sono una sorta di proiezione”.
“Cosa?”.
“Ecco, come spiegarlo in maniera semplice, la mia anima è intrappolata in questo quadro, posso toccare gli oggetti che mi circondano, posso parlare, ma non posso lasciare questa cornice”.
“Oh...ho capito, dunque ...credo di aver bisogno di ulteriori dettagli. Chi sei?”.
“Edgar Allan Morrison”.
“Piacere, Mel Singer” si alzò e strinse la mano che sporgeva dalla parete, era fredda e sottile, sentì la tela ruvida e lucida di colore sotto i polpastrelli e si ritrasse inorridita.
“Ero un alchimista, sono nato a Belfast il 14 gennaio 1798 e sono stato bruciato sul rogo come stregone a Stratford, un paesino inglese, il 18 marzo 1828. La Santa Inquisizione era solo un ricordo lontano per il resto dell’Europa, ma per gli zelanti bifolchi calvinisti, il fuoco restava un grande alleato contro i trucchi del Maligno” rise scoprendo una fila di denti inesistenti al posto dei quali si estendeva un profondo pertugio nero come la notte.
“C-continua” balbettò Mel.
“Nelle segrete del castello di Stratford riuscii a fare amicizia con una giovane donna che mi portava il pranzo, la convinsi a trafugare alcuni oggetti dalla mia casa: un piccolo prontuario di negromanzia, una tela e dei colori ad olio”.
“E ti facesti un autoritratto”.
“Esattamente, lo dipinsi con il mio sangue e la mia urina”.
Mel fece una smorfia disgustata ed Edgar rispose con il solito sorriso sdentato.
“Poi vi recitai un’antica invocazione sabbatica e strinsi un patto con le forze oscure”.
“Credo di non avere molta voglia di sapere il resto, ma dubito che me lo risparmierai”.
“Il patto prevedeva che alla mia morte fisica la mia anima sarebbe trasmigrata nel ritratto, e ,come immagine, il mio Io sarebbe vissuto in eterno privo della carne e del sangue”.
“Non hai fatto un grande affare amico mio, non credo che l’eternità appeso ad una parete sia pregna d’interessanti esperienze”.
“Infatti non lo è stata, ma posso porre fine a questo stato precario e tornare a vivere da uomo, ma non posso farlo da solo”.
Mel si accese una sigaretta, inalò a fondo e sbuffò una boccata di fumo riversando la testa all’indietro:
“Non mi intendo molto di magia nera, ma a questo punto in genere entra in ballo un sacrificio umano, giusto?”.
“Sei perspicace mia bella Mel; ho bisogno di un uomo nato il mio stesso giorno, devi condurlo a me perché possa cibarmi della sua carne e devi recitare la preghiera che è scritta sulla pergamena che tengo stretta in pugno”.
“E che mi reciterai affinché io la impari a memoria”.
“No, non posso rivelarla a nessuno, posso solo dirti dove trovarla, ed una volta che sarà in tuo possesso, dovrai decidere liberamente se aiutarmi o no”.
“Ed io cosa avrei in cambio se decidessi di aiutarti?”.
“Ho la facoltà di realizzare uno dei tuoi desideri appena libero, ma attenzione il mio signore pretenderà qualcosa in cambio da te, quando la tua brama sarà appagata”.
“Che cosa?”.
“Non lo so”.
Mel si alzò, accarezzò lasciva il volto del giovane e lo baciò sulle labbra di tela.
“Accetto, dimmi cosa devo fare”.



La mattina seguente telefonò al notaio accampando una banale scusa inerente il suo stato di salute, salutò frettolosamente Edgar e si diresse alla volta della biblioteca cittadina.
Il locale era ampio e polveroso, gli scaffali colmi di libri ed i tavoli ordinati e paralleli le dettero un leggero senso di soffocamento; chiese al bibliotecario se avessero dei testi di alchimia risalenti alla prima metà del diciottesimo secolo, e fu accompagnata in un’area piuttosto lontana dalle altre, in un corridoio vecchio e angusto. L’uomo le indicò una serie di volumi sul ripiano di mezzo e la lasciò senza neppure salutarla.
Scorse con l’indice laccato di rosso i titoli dei volumi e quando trovò quello che poteva fare al caso suo, lo prelevò con fatica dal ripiano e lo portò su un tavolino isolato.
“Negromanzia e vita eterna” recitava lo scolorito titolo sulla copertina.
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di Vampire