Aveva redatto con cura estrema la lista della spesa.
Nella sua precisa e scrupolosa calligrafia da brava segretaria, spiccavano, incolonnati uno sotto l’altro, come diligenti scolaretti, gli appunti della provvista settimanale di vettovaglie che doveva accingersi ad acquistare al supermercato in fondo alla strada. La controllò ancora una volta punto per punto: un chilo di piselli, due chili di insalata novella, due chili e mezzo di carne macinata per gli hamburger, suo marito Donald non mangiava altro, non poteva di certo dimenticarsene. Anzi, pensò, perché limitarsi, meglio quattro chili, dopo tutto il suo Donnie non aveva vizi né difetti, meglio coccolarlo un po’ nel fine settimana, una bella grigliata in giardino lo avrebbe ristorato dalle fatiche dei giorni lavorativi. Sperava tanto che riuscisse a strappare un aumento a quel taccagno del suo capo, dopo quattordici anni di duro lavoro come meccanico, era la prima volta che si permetteva di chiedere un piccolo premio per i suoi servigi, e quel grassone sempre arrabbiato del suo datore di lavoro, non gli aveva ancora dato una risposta, gli aveva solo detto che doveva pensarci. “Pensarci, già…” mormorò alla cucina vuota.
La gatta dei vicini zampettò fra i suoi piedi passando per la porta-finestra aperta, emise un lungo miagolio e poi le si rotolò dinnanzi in cerca di carezze.
Louise si chinò, arruffò il pelo della bestiola, prese la borsa da sopra il tavolo con la mano destra e con la sinistra issò l’animale per il pancino morbido e peloso, la micia emise un piccolo ringhio di disapprovazione.
Luoise non ci badò, chiuse a chiave la porta della cucina ed uscì in giardino.
“Margareth…” gridò alla volta della donna corpulenta che con indosso un paio di bermuda ed un cappello di paglia, stava innaffiando il piccolo giardino che confinava con il suo.
“Ciao Loulou” rispose la signora, chiudendo l’inaffiatoio.
“Eccoti la tua Pearl” disse facendo scendere la gatta dalle sue braccia e lasciandola correre nel giardino della vicina.
“Grazie” replicò Margareth.
“Vado a fare un po’ di spesa, ti serve qualcosa?”.
“Oh, sì, se non ti è di troppo disturbo, avrei proprio bisogno di una scatola di croccantini per Pearl”.
“Va bene, non mi è di nessun disturbo, ci vediamo fra poco, ciao”.
La donna rispose con un cenno della mano e tornò a dedicarsi alle sue rose.
Luoise camminava ciondolando pigramente la borsa di finta pelle, osservando distratta i passanti che le scivolavano affianco, un bimbo di pochi anni stava piangendo e strattonando all’unisono il lembo della gonna di una giovane bionda che doveva essere sua madre, la donna, intenta ad ascoltare un misterioso interlocutore telefonico, serrava il cellulare fra le lunghe mani curate con le unghie laccate di fresco, senza badare minimamente allo strazio che animava il suo piccolo. Luoise osservò la scena con una punta d’invidioso rammarico: lei sarebbe stata senz’altro una madre migliore, più attenta, più amorevole, meno civetta di quella sciocca che trascurava così visibilmente il suo bambino. Per un attimo gli occhi le si velarono di lacrime, sarebbe stata senza ombra di dubbio una madre migliore di quella, se solo avesse avuto figli. Ma il buon Dio non aveva voluto farle quel meraviglioso dono, il buon Dio, in vero, non era stato così prodigo di doni verso la sua fedele Luoise, forse l’aveva un po’ trasurata negli
ultimi…vent’anni; si scosse dai quei blasfemi pensieri, non era compito suo giudicare l’operato di Dio, il suo compito era accettare e vivere al meglio ciò che le era stato offerto, per poco che fosse.
Il supermercato era gremito come ogni sabato mattina: non riusciva a scorgere una sola cassa che non fosse assediata da una fila imbarazzante di avventori, tutti con i carrelli colmi ed i volti annoiati e stanchi per la lunga attesa.
Si fece largo fra la folla, si diresse verso una pila di cestini di plastica verde prelevandone un paio, che infilò sull’avambraccio sinistro con l’agilità di un equilibrista esperto cameriere di pizzeria. Scese con la scala mobile al reparto alimentari, passò in rassegna diverse qualità di mele, prima di sceglierne una ventina di quelle gialle e succose, Gold Star, rammentava si chiamassero, poi si incamminò verso il banco delle insalate; lì la scelta si fece più difficile, non riusciva proprio a decidere se fosse meglio comprare quella riccia e scura, o quella tenera e verde chiaro, dopo quasi cinque minuti di indispettita indecisione, optò per quella mista già lavata e tagliata in busta.
Poggiò i cestini sul linoleum arancione e pescò dalla tasca interna della giacca di jeans sgualcito, la lista della spesa: la carne! Si era quasi dimenticata il pranzo di Donnie, che sbadata, la sua distrazione stava raggiungendo livelli di guardia preoccupanti; sua madre glielo diceva sempre:
“Luoise sei così distratta che dovresti andare in giro con una medaglietta al collo con scritto nome, cognome ed indirizzo, come i cagnolini, almeno eviteresti di perderti in un bicchier d’acqua come tuo solito”.
Cara vecchia mamma, quanto la detestava, andarsene di casa era stata la decisione più felice della sua anonima vita; erano quasi dieci anni che non aveva notizie della sua anziana genitrice, forse avrebbe dovuto chiamarla, forse a Natale o per la feste di Pasqua, avrebbe avuto tempo per decidere…
Giunta dinnanzi al banco frigo pieno di trance di carne sezionata, disossata ed avvolta nel cellofan con impresso il codice a barre, fu assalita da un dubbio atroce: meglio il macinato di manzo o quello di vitella? Oh Signore -pensò- non riusciva proprio a ricordare cosa preferisse Donnie… Una furtiva scorsa all’orologio da polso la informò che erano quasi le tredici e trenta, fra poco suo marito sarebbe rincasato e lei non aveva neppure scongelato le lasagne precotte nel microonde. Afferrò una confezione da due chili di carne di manzo, un’altra analoga di vitella e si precipitò alla scala mobile per giungere trafelata alla cassa. Una volta lì si accorse di aver lasciato il cestino con la frutta e l’insalata di fronte al banco frigo della carne. Imprecò a denti stretti e ritornò sui suoi passi.
Il cestino era ancora abbandonato vicino alle casse della Coca-Cola. Tirò un profondo sospiro di sollievo, lo issò con fatica, quando il suo sguardo fu attratto da un carrello abbandonato vicino alla porticina della macelleria interna del supermercato. Il carrello doveva contenere qualcosa di grande, ma non riusciva a capire cosa fosse perché era coperto da un telo cerato marrone, di quelli che si usano per imballare i quarti di bue.
Era sempre stata drammaticamente curiosa e quella sagoma coperta aveva risvegliato il suo istinto felino.
Si avvicinò con circospezione, badando di non destare l’attenzione degli acquirenti, poggiò i cestini sul pavimento ed alzò il lembo destro dell’incerata.
Un cadavere.
Un cadavere maschile con gli occhi rivolti all’insù, la bocca aperta in una sorta di grido, le spalle incastrate contro i sostegni di ferro del carrello e le mani contorte innaturalmente poggiate sul grembo, le gambe erano divaricate ed i piedi stranamente incrociati appoggiati sul fondo di alluminio.
Lo ricoprì.
Non gridò.
Che ci faceva un morto in un carrello del supermercato?
Chi ce lo aveva messo?
Chi lo aveva ucciso?
E soprattutto…era vero?
Sollevò di nuovo il lembo dell’incerata, l’uomo continuava a fissarla con le pupille fisse e dilatate.
Era vero, su questo, almeno, non c’erano dubbi.
Non poteva di certo lasciarlo lì, sì, insomma, poveretto, che fine ingloriosa, abbandonato sulla porta di una macelleria in un supermercato, doveva spostarlo.     [ avanti » ]

di Vampire