“Da ragazzo ero appassionato di film horror…” pensava Max percorrendo quella strada periferica e semibuia che saliva verso la collina “Non mi facevano paura… Ma adesso che è morto pure papà mi spaventa l’idea di sentirmi solo… e poi non mi va di tornare a casa dopo tutto questo tempo…” Una consistente foschia rendeva faticosa la visibilità e tutto sembrava avvolto da un sinistro grigiore che metteva angoscia nell’anima.
“… Spiriti, zombi, serial killer, sangue, ne ero quasi ossessionato, per questo la mia mente si era ammalata, sosteneva ingenuamente mia madre…”
Si fermò. Guardò il foglio di carta che aveva in mano.
Lo informavano del decesso del genitore e che pertanto doveva recarsi a prendere possesso della casa paterna. In un pacchettino gli erano state recapitate anche le chiavi.
La lettera era scritta a penna, ma in stampatello, e questo non gli era sembrato normale, poche parole per dire che a causa di un tumore al cervello il padre aveva smesso di vivere, nient’altro. In calce il timbro di una clinica privata e uno scarabocchio a fare da firma. Strano. Dietro al foglio c’era un appunto “Nella stanza del ragazzo" e più in basso le parole “Nastro” e “Diario” il tutto scritto in pessima grafia, ebbe l’impressione che fossero parole scritte nel posto sbagliato, e questo gli sembrava ancora più strano.
Le poche abitazioni che si intravedevano andavano diradandosi sempre più e l’edificio più vicino era il piccolo cimitero, che di sera appariva anonimo e dall’aspetto abbandonato, la cui vista gli aveva evocato la sua gioventù.
“Non so neanche dove lo hanno seppellito…”
Si fermò a guardare le lapidi, i fiori e le croci attraverso il tetro cancello d’ingresso, arrugginito e cadente, chiuso appena con una vecchia catena che avrebbe dovuto sostituire la serratura rotta. Gli sembrava tutto più piccolo, forse perché i suoi ricordi si erano fermati a quando era un bambino e tutte le cose appaiono più grandi, o forse perché era così che la sua mente inferma voleva che le vedesse.
“… Sono tutti quei mostri che ti fanno venire le allucinazioni, diceva rimproverandomi quando mi accompagnava dallo psicanalista…” La madre era stata una donna semplice e spontanea, poca istruzione e tanto amore per la famiglia, per i figli soprattutto.
La catena, però, non chiudeva ermeticamente l’inferriata, lasciando uno spazio di circa mezzo metro.
“Ci passa giusto una persona non troppo grossa...” Pensava mentre rimetteva in tasca la lettera “…O un cadavere…”
- Un cadavere… – sentì ripetere alle sue spalle da una voce quasi deformata.
Si voltò di scatto, sorpreso dalla presenza di qualcun altro in quel luogo isolato.
I grossi cespugli che lambivano il muro di cinta si muovevano come se qualcuno vi si fosse appena nascosto.
- C’è qualcuno li? –
Di vento ce n’era veramente poco, eppure quelle frasche si muovevano.
- Non ho più allucinazioni e comincio a sentire le voci? – si chiese perplesso.
Ma il silenzio irreale rotto solo da echi lontanissimi e dal fruscio delle piante faceva pensare che non c’era decisamente nessuno che avrebbe potuto parlare, se ne convinse anche lui e decise di riprendere il cammino.
Voltò lo sguardo, due occhi spiritati lo fissavano, il volto deturpato era del vecchio custode del cimitero, coperto da un ruvido cappuccio, con due pupille che luccicavano come fiamme dell’inferno e con un ghigno orripilante che mostrava i pochi denti marci.
- Un cadavere… -
Una esplosione mentale gli assalì i timpani. Chiuse d’istinto gli occhi portandosi le mani a coprire la faccia ed emise un breve grido di paura.
“Impossibile che sia lui, avrà più di cento anni ormai” pensò immediatamente.
Quando riaprì gli occhi c’era solo la strada al buio davanti a se.
“Da ragazzo ero appassionato di film horror… e adesso il buio mi fa paura!” fece questa considerazione, visto lo scherzo che l’oscurità e la nebbia gli avevano fatto.
Un grosso sospiro, una stropicciata ancora agli occhi: niente, davanti a se non c’era nessuno. Scosse la testa e riprese a camminare in quel silenzio che cominciava a dargli su i nervi.

“Sei andato fuori di testa perché non hai una donna, sosteneva invece mio padre, a forza di masturbarsi si diventa matti.” Camminava guardando per terra, ripensando al difficile rapporto che aveva avuto con lui “ Chissà se adesso che è morto almeno lui avrà finalmente scoperto qual è la verità!”
Aveva percorso un bel po’ di strada quando si fermò all’improvviso.
Si voltò lentamente indietro per capire chi fosse a seguirlo.
Trattenne il fiato. Guardava ma non riusciva a capire.
Fissò con insistenza il tronco di un grande albero che solitario fiancheggiava la strada; con gli occhi scrutanti cercava di scorgere chi si nascondesse dietro quel grosso fusto. L’albero stava fermo, immobile, da un momento all’altro qualcuno sarebbe sbucato fuori.
Niente.
Con aria seccata riprese il cammino e quando poco dopo riconobbe come degli altri passi che seguivano i suoi rifletté un attimo, perplesso, poi si rassegnò ad ignorarli. “E’ difficile guarire completamente da certi mali…”

Quando giunse davanti alla casa che lo aveva visto bambino prima, e adolescente poi, gli sembrò di tornare indietro nel tempo. Guardò le finestre al buio soffermandosi su una in particolare, quella della sua stanza. L’oscurità dietro al vetro era impenetrabile e angosciante, ebbe l’impressione che improvvisamente da essa si potesse materializzare qualsiasi cosa, ecco una mano tesa e supplichevole, poi un volto pallido e spento, il silenzio rendeva paradossalmente pesante quell’atmosfera, ma la finestra restava al suo posto, e oltre il vetro: il buio, solo e soltanto il buio.
Un urlo disperato di donna lacerò le tenebre.
L’auto passò sfrecciando rumorosa sulla strada deserta, i vetri scuri nascondevano la vista di chi occupava i sedili anteriori, sul sedile posteriore, invece, il viso sbiancato di una ragazza dagli occhi scuri e severi lo fissava con insistenza e inquietudine.
Era stata lei ad urlare?
Max la riconobbe con malinconico stupore, allungò la mano quasi volesse afferrarla e la chiamò:
- Mamma! –
Mentre l’auto si allontanava la donna articolò con ampio movimento della bocca qualche parola “Non entrare…”
Continuando a fissarlo provò a dire qualcos’altro. Incomprensibile.
- Non ti capisco… -
Marcava le sillabe per consentire di leggere il labiale, ma erano indecifrabili. Si faceva sempre più distante e la bocca così aperta nel tentativo di farsi capire si deformò a dismisura rendendo il suo viso raccapricciante. Max rimase attonito.
“Mi devi raccontare qualcosa di strano che hai visto da piccolo, mi ripeteva il professor Morsen nel tentativo di scoprire qual era stato il trauma che mi aveva ridotto a quel modo…”
Si avvicinò al portone d’ingresso.
“Odiavo quel dottore… il suo modo di fare così autoritario mi infastidiva tremendamente!”
Mise le mani in tasca e prese le chiavi.
“Qualcosa di… anormale, che hai vissuto in passato ti ha ridotto così, insisteva. Ripensandoci da grande, un bel po’ di cose che avevo visto da piccolo mi sembravano strane…”
Tra le sue mani riconobbe il vecchio portachiavi del genitore, rammentò quando gli aveva lasciato la casa a disposizione e un po’ di soldi “Stasera trovati una femmina, falla bere e datti da fare, vedrai che poi starai meglio! Se vuoi te la chiamo io una puttana!”
- Me ne sono fatte di zoccole, caro papà, ma lo stesso al manicomio son finito… -     [ Vai a pagina: 2 » ]